sabato 23 giugno 2012

CI VEDIAMO AL PUNTO G racconto breve di Nicola Palopoli (2006)


                               
E' meglio farsi una buona risata o una bella, infuocata notte d’amore ?

 Per essere buone e belle anzitutto bisogna essere in due, poi ci vuole

 tanta predisposizione, e comunque è una bella impresa. Entrambe

fanno bene, al fisico e al morale: dicono che ridere tanto allunga la vita,

 scopare tanto stanca ma è decisamente rilassante. Tranne che quando

 ci riempiono di troppe nozioni o, peggio ancora di tabù, veri o presunti

 che siano: una volta si diceva "Attento a non prendere lo scolo!!", che

 uno stava sempre bene all’erta a non portare l'amica in prossimità di

 una grondaia ed era sempre molto attento alle previsioni del tempo.

Oggi si avverte che prima della fine del mondo ci saranno milioni di morti

di AIDS, il che come deterrente non è male. Ma soprattutto, perchè ogni

cosa riesca alla perfezione, bisogna trovare...il punto G del partner.

Trovato quello hai fatto BINGO! Immaginatevi tanti spermatozoi vestiti

da giullari che ballando e cantando, ebbri di felicità, si travasano dall'uomo

 alla donna. Succede questo!

Altra ricetta per la felicità è stare seduti a un tavolo, davanti a un buon

bicchiere di Chianti, e sentire cazzate dal vostro amico più simpatico:

vi alzerete dal tavolo con un non so che di sazio, convinti di aver raggiunto

il diapason di un momento irripetibile. E senza neanche esservi impazziti a

trovare il punto G.

 Beh, a farvi ridere posso aiutarvi anche io, per la scopata, magari, guardatevi

 in giro...





Già dal 1958 una certa Merlin decise di buttare le chiavi di tutte le case, quelle

 chiuse, in un tombino. Il motivo? Gli Italiani troppo egoisti e soprattutto sbrigativi

 si preoccupavano molto poco della felicità delle partner, fossero loro occasionali

 o quelle che ti presentano appena metti il naso dentro casa la lista delle bollette.

Non c'era allora molta preoccupazione per il punto G; ci si preoccupava molto di

più del punto di ristoro, il bar più vicino, dove spedire il marito già in ciabatte a

prendere il latte che era finito. Smoccolando, il marito si rimetteva mocassini e

cappotto e scendeva per la funzione che gli toccava un giorno sì e l’altro pure.



Andava avanti così da anni e non c'era una volta che lui tornando, chiedesse prima

di svestirsi e mettersi alla televisione se serviva il latte o lei glielo

anticipasse per telefono!

Magari ci si preoccupava anche di dove fosse il punto di raccolta dell'immondizia

perchè anche quello è un obbligo matrimoniale che il marito deve assolvere pena la

nullità del sacramento. Insomma, motivi di stress ce n'erano anche allora. Quando

poi si arrivava alla fine della giornata, a quei tempi, era il marito in quanto tale che

 doveva armarsi di spartito e convincere la moglie a concedersi; per la donna era

 disdicevole. Stanca e con i bigodini in testa la consorte si prestava all'opera perché

 all’epoca non sottostare era disdicevole e, orologio alla mano, dopo un paio di

secondi cominciava a gemere: mugolii indistinti, lasciati volutamente così quasi a far intendere la noia della solita minestra, ma che rappresentavano anche

 il tifo per il marito al lavoro. Nessuna di loro è mai arrivata a fare la OLA

 in questi frangenti e questo la dice molto lunga su come a quell' epoca

 si fosse distanti dal pensare al punto G. Ma poi perchè il Sig. Rossi si

sarebbe dovuto preoccupare, proprio lui, di trovarlo? Prima di lui ci avevano

provato Churchill e Eisenhower, non congiunti insieme nella stessa alcova,

ci mancherebbe, e si erano arenati nel D day: una carneficina...Tre lettere

 e ci sarebbero arrivati. Il mese era quello buono, giugno, primavera inoltrata,

la stagione degli amori, ma le dune di quella spiaggia erano troppo mal frequentate

per concedersi il relax necessario.



 

In quel lontano 1958, Berlusconi suonava in un'orchestrina nelle balere di

Milano. Fu il Cerutti che un po' per scherzo, un po' per coglionarlo, gli cominciò

a parlare del punto G. Erano i primi anni del 1960, l'epoca del boom economico

e Berlusconi, che già allora si sentiva il primo della classe, nel sentirlo parlare

percepì profumo di affari. Cominciò a disegnare G dovunque, fu cacciato dalla

balera perchè fu trovato a scolpire una G  gigante nel muro mentre col martello

nella mano sinistra calava mazzate furiose dicendo "Perchè non godi?". Aveva

strappato tutte le pagine del vocabolario salvando solo le parole con la lettera

G iniziale, ma senza trovare la chiave esatta del significato. Così andava avanti

per tentativi. Bluffava spudoratamente già da allora, raccontava di sapere tutto

sul punto G, ma una volta fu interrogato a fondo dal Cerutti: lui per G intendeva

le iniziali di Giorgio Gaber, il suo creatore, ma l'altro si incaponiva che invece G

stava per Governo, che lui era stato unto dal Signore e aveva avuto delle visioni

premonitrici. Accortosi del casino che aveva combinato, il Cerutti si diede da fare

per cercare di farlo distrarre un po' e, anche per toglierselo dalle palle, gli

trovò un posto nell'orchestrina di una nave da crociera che faceva il giro

del Mediterraneo, con soste anche sul Gargano da dove era prevista una

gita a Pietralcina, luogo santo residenza di Padre Pio.

Silvio suonò svagato per tutta la crociera, intonava “Legata a un granello

di sabbia” ma scivolava subito in "Quando quando quando", scimmiottando

di brutto Tony Renis, di cui vantava l'amicizia e infarcendo la canzone di riferimenti

politici non meglio identificati (all'epoca). Arrivato a Pietralcina, dopo aver

vomitato come una balena tanti cornetti a forma di G lungo i tornanti del

Gargano, si sentì però improvvisamente meglio. Padre Pio era occupato in

faccende molto più importanti che salutare un gruppo di persone in ciabattine

da mare, prendisole e orchestrina, ma davanti a una mega statua in bronzo

del Sant'uomo, il Berlusca rimase come folgorato: il sax cominciò a gemere

e, dopo qualche minuto di trance, si risvegliò in piena crisi logorroica. A

chiunque gli si faceva vicino raccontava di aver visto Padre Pio in maglia

rossonera che con la mano gli faceva il segno V di vittoria, ma poteva essere

anche un 2, poi il gesto cambiava in uno sfarfallio di suoni e colori e le mani

si mettevano a forma di "cachet". Non pensando ad altro significato, interpretò

questo come il simbolo della televisione. Improvvisamente apparve uno

stuolo di angeli di colore azzurro che cantavano melodiosamente un inno:

lui riuscì solo a captare le parole "Forza Italia", ma tanto bastava e avanzava.

Un istante prima di sparire l'immagine del Santo ormai sublimata, gli predisse

un lifting, poi sparì.

Tornato a Milano, Berlusconi cominciò a mettere mano al suo progetto.

Comprò un agenda e ci segnò come prima cosa il punto di partenza:

il famigerato punto G, poi pian piano si dedicò alla mappa di Milano e

alle figurine dei calciatori Panini. Attaccava tutto quello che trovava al

riguardo sull'agenda che ben presto divenne una pattumiera, ma non

aveva finito. Non gli erano ben chiari i significati della canzone con le

parole "Forza Italia", poi non sapeva assolutamente cosa volesse dire

lifting...Dall'inglese to lift= alzare si iscrisse ad una palestra di sollevamento

pesi. Continuava a non essergli chiaro soprattutto il perchè di tanta fatica

e all'incertezza si era aggiunta anche una punta d'ernia che dolorosamente

si ricacciava indietro con le dita: che fosse quello il punto G? Nel frattempo

passava nottate a disegnare piantine di Milano e ad incollare figurine di

calciatori del Milan, spostandoli sull' agenda come su un campo di calcio

e immaginandosi allenatore, manager e massaggiatore.

Un giorno si soffermò sulla periferia di Milano, una zona dove il verde

dominava incontrastato: alla radio Celentano cantava a squarciagola

"Il ragazzo della Via Gluck", ma non ne colse il significato. Telefonò

subito alla sua amica Veronica, una bella ragazza che aveva conosciuto

dove aveva comprato l'agenda e alla quale aveva chiesto consiglio su

quale colore scegliere, per invitarla ad una partita di Monopoli. Come

sfondo per il gioco aveva scelto proprio la periferia di Milano.

I preparativi furono molto laboriosi: luci basse e colorate, a creare quell'

ambientino da balera che lo stuzzicava tanto. Per fare l'effetto luce aveva

avvolto le lampadine in fogli di tutti i colori, poi aveva riempito la colonna

del giradischi di "Quando quando quando" in modo che finito il primo, ne

subentrasse subito un secondo e così via fino a 9, aveva mimato le mosse

di un coitus interructus e si era pulito le orecchie con il dito mignolo. Si era

a lungo rimirato davanti allo specchio, dietro il quale alcuni faretti diffondevano

una luce a fascio a mo' di riflettore, aveva anche provato il gesto delle

corna sulla sua testa, ma non ne rimase soddisfatto e decise che le avrebbe

 fatte sulla testa di qualcun altro. Purtroppo, mentre si dedicava a tutto

 questo non si era  accorto che la carta colorata con cui aveva avvolto

 le lampadine nel soggiorno aveva preso fuoco e le fiamme avevano

già distrutto una pila di dischi di Tony Renis. Prese  l'estintore, trovò

un elmetto e riuscì a spegnere l'incendio prima che le fiamme arrivassero

alla preziosa agenda. Quando Veronica arrivò, si trovò davanti il sorriso

a 32 denti dell'amico che, tanto per vantarsi e fare colpo, gli disse con

enfasi: "Oggi ho fatto anche il pompiere, ho spento un incendio che poteva

distruggere Milano...". L'amica, che ormai conosceva quella sua aria da

gradasso gli rispose per niente impressionata:"Ma dai su, che Milano è

solo da bere..." Silvio interpretò questa esclamazione come un tacito

invito a farsi un bicchierino e le versò seduta stante una grappa a 100

gradi che lei bevve scambiandola per acqua: da quel giorno soffrì di

violenti bruciori allo stomaco...

La partita a Monopoli si rivelò noiosa: Silvio giocava più che altro ad

asso pigliatutto: "Via Verdi" "Mia!!!", gridava esaltato; "Vicolo corto"

"Mio!!!" e finiti i soldi, forte di millantate coperture, li rubava dalla cassa.

Annoiata, scelse un momento che Silvio, convinto di non essere visto,

appozzava a piene mani dalla cassa e si slacciò due bottoncini della

camicia. Ormai Berlusconi aveva comprato tutto e continuava a giocare

da solo, lei si alzò, si scolò una Coca Cola bevendo dalla bottiglia e si

avvicinò mellifluamente a Silvio strusciandoglisi addosso. Silvio era

ormai in piena trance agonistica, comprava e vendeva senza sosta,

si era portato vicino un blocco di carta dove scriveva domande di mutuo

a banche immaginarie e si concedeva i prestiti da solo. Lei continuava

a strofinarsi sul gomito di Silvio: poi a bruciapelo gli chiese: "Sai cos'è

il punto G?" "Ancora!!!" pensò Silvio, ma all'improvviso si rabbuiò:"Hai

visto il Cerutti..."la apostrofò in malo modo. Era un ottimo sistema per

non farsi scoprire del tutto all'oscuro su quella cosa e per farla sentire

in colpa: lui stava lavorando! Impermalosita, lei gli si avvicinò e gli scodellò

tutto il davanzale davanti, si sbottonò tutta la camicetta fino alla propria

indipendenza economica facendogli intendere cosa voleva.



Suonò il telefono: era Confalonieri.



"Passano gli anni, ma otto son lunghi..." cantava Celentano. E qualche

annetto passò anche per Silvio; Veronica aveva capito che in quell'uomo

c'era qualcosa di buono, soprattutto vicino a quell'uomo c'erano amicizie

importanti. Lei non li conosceva, si doveva fidare quando lui usciva la

sera con sottobraccio un cappuccio e le diceva che era stato invitato ad

una festa mascherata per soli uomini, ma lei aveva imparato ad amare

anche le sue stravaganze e non dava loro peso più di tanto.

L'essenziale era che a casa si mangiasse tutti i giorni e ci si potesse

anche permettere qualche uscita la sera. Si erano sposati, lei non gli

aveva più chiesto dove fosse il punto G, lui si infilava la sera sotto le

coperte, consumavano con Silvio che inneggiava ansimante "Sì, sì,

...la società dei consumi...", il sabato e la domenica facevano un picnic

ad Arcore, attenti a non essere visti da "quelli della Villa" che non

avrebbero gradito, nacquero dei pargoli e lì ebbe modo di apprezzare

per la prima volta l'originalità del marito, quando si trattò di sceglierne

il nome. Alla fine il ballottaggio fu tra Gieiar (letto come si scrive, dal

serial Dallas) e Pier Silvio. Con tutta la dolcezza possibile, prese Silvio

da una parte e gli manifestò le sue perplessità:"Gieiar proprio non mi piace,

vada per  Pier Silvio". E così fu. Durante la settimana Berlusconi lavorava

come impresario in un enorme cantiere alla periferia di Milano, la sera,

quando non andava a qualche festa, aveva preso a frequentare insieme

all'amico Confalonieri, tal Galliani da Monza, un tipo che con le antenne

televisive sembrava ci sapesse fare. Silvio aveva un piano e lo manifestò

al nuovo amico:"Senti, perchè le antenne che monti non le rivolgi tutte

verso un punto, chiamiamolo punto G..., e da quel punto mandiamo noi

qualche filmino? Pensa, gli Italiano potrebbero trovarsi “I magnifici Sette”

invece del telegiornale, si divertirebbero di più e ce ne sarebbero grati...".

Galliani si grattò l'enorme testa folta di capelli (!!!), ci pensò un attimo,

poi gli rispose con lo stesso sorriso:"Si può fare, vada per il punto G".

Solo allora il Berlusca si rese conto di come aveva chiamato quel punto,

ma lo prese come portafortuna: in fondo tutto era nato da lì... 

Gli affari ormai andavano bene: il cantiere era finito e quella periferia di

Milano dove aveva appena finito di costruire decise di chiamarla con la

consueta originalità Milano 2, le antenne facevano il loro dovere e lui si

era anche tolto lo sfizio di presentare qualche Televendita: gli avevano

detto che il suo viso bucava lo schermo. Aveva venduto mobili in truciolato

al prezzo di comò del '700 veneziano, aceti balsamici fatti con vino novello,

fiori finti e croste antiche, insomma un profeta del marketing. Ma non si

accontentava più: decise di mettere su una televisione.



Gli inizi furono devastanti: Confalonieri dietro la macchina da presa con in

mano il Ciak. Al quinto giorno di trasmissioni si presentò con la mano

sinistra completamente fasciata e si decise di fare a meno del ciak a

vantaggio di un più comodo e meno doloroso "Un, due tre..." scandito

a voce. Gli ascolti erano buoni, ma mancava uno spazio per l'informazione

e la signorina Buonasera. Si decise di continuare per un po' a lavorare

in economia, si continuò a fare a meno del Telegiornale e si chiamò

Veronica ad annunciare i programmi. Andò tutto liscio finchè lei non si

presentò alla televisione allattando l'ultimo nato. Il centralino fu letteralmente

inondato di telefonate di protesta che invocavano la tutela dei minori e il

padrone della TV, cioè Silvio, fu condannato in giudizio sommario dal

giudice Sante Licheri a chiedere scusa a tutta la sua platea di telespettatori

attraverso un telegiornale. Ormai Silvio si sentiva pressato: doveva a tutti i

costi inserire nel palinsesto dei suoi programmi un TG e non sapeva a chi

affidarlo. Un aiuto gli giunse inaspettato. Fu invitato una sera a giocare a

poker da un amico in un appartamento di Milano 2 trasformato in bisca 

per l'occasione: al suo tavolo il fido Confalonieri, Galliani e un certo Emilio

Fede. Dopo qualche mano di assaggio, piatti piccoli, coppie e doppie

coppie si arrivò ai fuochi d'artificio: Galliani si ritrovò con una scala minima

servita. "Ottima per salire sui tetti e montare le antenne..."lo coglionò a

punto scoperto Confalonieri che in mano aveva un full di sette con gli

otto, ma non bastava per andare a vedere Emilio Fede e soprattutto

Silvio che stava lì pensieroso con le cinque carte in mano a fissare il

piatto. "Più 200" (mila)  "Altre 200 (mila) per vedere il punto" gli rispose

Fede. "Vedo il punto" disse infine il Berlusca. Fede calò il Poker di

Donne una carta per volta, quasi sprezzante verso quel pivellino e

aspettò a sua volta di vedere il punto dell'altro. Silvio con enfasi calò

prima un sette, poi un dieci, poi un otto, un re e un asso. Messe insieme

valevano meno di un due di briscola, ma lui esclamò sorridendo a 32

denti: "Punto G". L'altro lo guardò chiedendosi se era matto o lo stava

prendendo per il culo, ma Silvio si affrettò a declamare la scala dei punteggi

del Poker: "Scala Reale, Punto G, Poker, colore, full, scala, tris, doppia

coppia, coppia" e arraffò il piatto. Dovettero intervenire Confalonieri e

Galliani al quale molti capelli furono strappati nella rissa che seguì per

portare ordine. Ristabilita la pace, Fede volle le scuse e un indennizzo

e lì scattò la molla del Berlusca: "Senta, ho saputo che lei conduce i

TG, vuole condurre il mio, contratto illimitato marchette incluse, s'intende?..".
Fede ne fu entusiasta. 

Emilio Fede si dimostrò subito un collaboratore validissimo. Esperto

conduttore di TG era quello che ci voleva per dare il via all’informazione

alternativa, qualcosa che uscisse dal solito minestrone della Rai cui tutti

ci eravamo abituati. Alla lunga si rivelò anche un fedelissimo tanto che

su un palinsesto fu, non si è mai saputo quanto erroneamente scritto,

Emilio Fido e lui si incazzò tantissimo, scivolando a telecamere spente

anche in luoghi molto comuni del tipo “Non si sputa nel piatto dove si

mangia” oppure “Io faccio solo il mio dovere” facendo qualche confusione

tra il dovere di cronaca e quello di prestare fedeltà a proprio datore di

lavoro. Ma questo non è vero: Emilio Fede si affeziona visceralmente

a chi comanda, lo segue ovunque e si mostra sempre condiscendente

con lui. C’è chi lo vede come un pregio, chi come un difetto, ma lui è

fatto così. “Sono della Juventus, ma il padrone è del Milan? Tifiamo

Milan…” e via allo stadio tutte le domeniche, senza neanche preoccuparsi

di non confondersi tra gli Ultras, ma sempre lì in prima fila, piove nevichi

o tiri vento. Questa duttilità lo rende particolarmente utile, un jolly della

comunità, e una sera che una velina aveva dato forfait a Striscia la

notizia si prestò lui a prenderne il posto e riuscì così bene nell’impresa

che non se ne accorse neanche Ezio Greggio. 

Profondo conoscitore di donne, lui sa benissimo cosa e soprattutto

dove sia il Punto G, ma per una malcelata forma di pudore non lo dice,

lo lascia intuire andando dal Nord al Sud del pianeta femminile:

”E’ tra i capelli e il ditone del piede”. A chi gli chiede notizie più precise

risponde di sintonizzarsi sul suo TG e soprattutto di seguire i programmi

del palinsesto: prima o poi qualcuno parlerà per lui e si sbilancerà.

Della partita a poker che lo introdusse nella corte del Berlusca ha solo

qualche piccolo ricordo: una manciata, giusto per il DNA, dei capelli di

Galliani (ormai reperto storico), le carte di quella serata. Ha letteralmente

divorato manuali sul poker per sapere se era valido il punto di Silvio e

alla fine è giunto, più per deformazione che per consunzione del pensiero,

alla conclusione che il Padrone ha sempre ragione,ergo ha avuto ragione

anche quella volta. Qualche dubbio gli è venuto quando, in un’altra serata

a Poker, si è trovato a scontrarsi con Galeazzi; gli era capitata la stessa

combinazione di Berlusconi di quella sera contro un full di Re di Galeazzi,

guardò il suo avversario, soprattutto lo soppesò poi disse “Cip!”, con la

stessa innocenza con cui cinguettano gli uccellini a primavera. Galeazzi

lo guardò, rimase incantato da tanta innocenza e gli lasciò il piatto.

Alle donne piace proprio per questo: la sua innocenza apre dei trabocchetti

infiniti per le ingenue che ci cadono dentro e lì lui diventa un rapace.

Indossa il kimono, sorride a 32 denti come gli ha insegnato il corso

accelerato in 12 lezioni sulla comunicazione, e lascia intravedere

anziché il petto villoso la camicia rosa che ha indossato sotto per

perdere meno tempo e non farsi trovare impreparato a un’ eventuale

Edizione Straordinaria del TG, non si sa mai…Se arriva in fondo diventa

un film a luci rosse, ma è un evento raro dato che Silvio e Gonfalonieri

lo chiamano al cellulare in continuazione vuoi per andare a prendere

la cena al fast food di Milano 2 vuoi per portare fuori di due dobermann

che solo lui riesce a domare.



Berlusconi ormai era lanciato: cominciò a giocare con le televisioni come

con il Monopoli, le antenne montate da Galliani trasmettevano in continuazione

serial e meno serial: Dallas, il TG, televendite, ancora Dallas, pubblicità,

ancora Dallas, ancora pubblicità e via dicendo. Coniò Canale5, poi Italia 1

poi Retequattro, si impossessò di Capodistria e ci mise dentro lo sport,

fece di Retequattro una rete per famiglie e degli altri due i canali d’elite,

film, giochi documentari. Le amicizie con Craxi e altri potenti del palazzo

fornivano la migliore copertura a quella che lui ha sempre considerato una

missione: dare agli Italiani quello che meritano; cioè donare divertimento

dopo una dura giornata di lavoro e togliere loro più pensieri possibile. La

TV deve essere un relax, infatti ecco aumentare le pubblicità con preferenza

per quella del Mulino Bianco, ovvero quello che l’Italiano medio non riuscirà

mai a fare: colazione seduto al tavolino ridendo e slimonando con la moglie

mentre il cane accompagna i bambini a scuola. A ruota ecco i programmi

a premi, dove per qualcuno che riesce a prendere la linea formando il numero

800… ci sono milioni di Italiani medi che pagano 200000 lire di bolletta

telefonica appena si innesca il disco dall’altra parte: ”Siamo spiacenti,

ma gli operatori sono momentaneamente occupati. Vi preghiamo di

restare in linea per non perdere la priorità acquisita…”e giù altra

pubblicità. Insomma, un Bengodi dove grazie a lui tutti possono sognare

di arrivare a qualcosa: Italia, il Paese delle opportunità. Ma non era

l’America, quel paese? No, dopo Berlusconi. Come al solito sono le

frange più deboli a pagare il dazio di questi sogni: L’Italia è piena di

Albanesi e Rumeni che grazie alle antenne montate da Galliani hanno

captato il segnale di Canale 5 e si sono fiondati in Italia con ogni mezzo

e pagando qualsiasi cifra pur di fare colazione come al Mulino Bianco.

Purtroppo la lingua è spesso una barriera insormontabile ed è bene non

fidarsi mai delle sole immagini. Al loro arrivo in Italia, trak: cazzuola in mano,

regola la sveglia alle 5 e via a fare il muratore o a cogliere pomodori nei campi.

Per merenda 2 biscotti (del Mulino bianco, naturalmente). Ci è già rimasta

fregata tanta gente che Silvio si merita all’unanimità l’appellativo di Grande

Comunicatore, ancor prima di Cavaliere. Lo sghei c’è, a palate, alla villa

di Arcore ormai non si va più per fare il picnic pirata con la Veronica ma

ci si abita e i body guards sorvegliano con fiero cipiglio.che malintenzionati

non si avventurino nelle vicinanze a gozzovigliare, pena lo sguinzagliamento

di Fede e dei dobermann. Insomma, si viene a creare un’immagine che

ormai dilaga, ma non basta…

Nelle fredde sere di Arcore, chiuso in una delle innumerevoli stanze,

Berlusconi non si da pace. Continua a comprare figurine Panini,

arrivando a iscrivere una voce al riguardo nel bilancio di Mediaset,

e nella sua mente si fa strada un idea: il Milan. Quale migliore veicolo

pubblicitario di una squadra di calcio? Il Milan se la passa male, è

stato in serie B, gioca malinconicamente in serie A e ha grossissimi

problemi di bilancio. E’ sull’orlo del fallimento. Veronica e i figli dormono,

lui, sottovoce prende il telefono e chiama Galliani. Galliani è su un

tetto a montare un’antenna, a momenti si strangola con il filo per

rispondere al cellulare, poi riesce a divincolarsi e risponde. Lui è

milanista da sempre, ma dalla sera del poker soffre di un esaurimento

nervoso che gli ha fatto cadere tutti i capelli. Ora a detta sua è bruttissimo

che non si può guardare, e se lo dice lui c’è da crederci.Ha paura

che essere investito in prima persona nella presidenza del Milan

possa fargli peggiorare l’esaurimento facendogli cadere anche i

peli pubici e le unghie delle dita dei piedi. Senza contare che con

quella telefonata il primo a rischiare di cadere dal tetto era stato lui…

Berlusconi, quando vuole cioè quasi sempre, può essere rassicurante

come un faro nella notte più buia: “Saneremo i debiti,consoleremo gli

afflitti, compreremo il meglio dei giocatori sul mercato e fuori del

mercato, vinceremo scudetti e Coppe dei Campioni, saremo i più

forti del mondo!” Qui succede una cosa strana: Galliani, milanista

da sempre, cade in catarsi e si ritrova sull’attenti, sul tetto, con la

testa che dice sempre si, le orecchie rosse non si sa se per il gelo

o la pressione sanguigna, e stringe convulsamente un’antenna. 

In quel sogno ad occhi aperti gli è sembrato di vedere un ragazzo

biondo con la maglia rossonera stringere con una mano la bandierina

del calcio d’angolo e con l’altra indicare un punto del proprio corpo:

il punto G. Alla fine di questa polluzione ad occhi aperti (ed anche

un po’ gay, se vogliamo) si scuote ed è convinto di aver visto il

mare aprirsi, una folla di persone con le bandiere rossonere attraversarlo

e un uomo con delle tavole sul monte ad indicargli la strada da seguire.

Lui è il Presidente del Milan. 



L’arrivo di Berlusconi e Galliani al Milan è un po’ come il primo giorno

di scuola: non si scorda mai e loro non hanno fatto niente per farlo

scordare. Arrivo in elicottero sulle note della Cavalcata delle Valchirie,

standing ovation per tutti anche se ancora non c’era nessun motivo e

via all’allenamento tra una folla di gente che nemmeno al Colosseo al

tempo dei gladiatori. Allenamento, poi il pranzo. E qui succede il fattaccio,

o meglio c’è la svolta a quella che sarà la stagione della squadra: siamo

al dessert, i giocatori guidati da Liedholm e sotto gli occhi severi di

Silvio e Galliani hanno mangiato a strafottere; chi rotta, chi scorreggia,

chi ha gettato la testa sul piatto e dorme sulle patatine. Insomma,

un’Armata Brancaleone. Galliani sta per addentare un pezzo di crostata

che un po’ di marmellata di ciliegie gli cade sulla cravatta gialla

imbrattandogliela. Non sia mai, è la goccia che fa traboccare il

vaso: furibondo si volta verso Silvio e biascica in un ghigno da

squalo:”Guarda che è successo!” Berlusconi si alza, monta su

una sedia e proclama: “Signori,il fido Galliani si è macchiato con

la marmellata. Da oggi niente più crostate!” Dal fondo della tavola

si sente un rotto, ma fa finta di non accorgersi, poi va verso Liedholm

che sta sorseggiando un vinello delle sue terre (è al settimo bicchiere,

ma lui l’alcool lo regge bene) lo prende in disparte e gli dice: “Da

oggi il menù lo preparo io e lo serve Galliani, se si amplia la “rosa”

chiamo a servire anche Fede”. A Liedholm che vorrebbe replicare

non lascia alcuno spazio:”Se non va bene quella è la porta: passi

lunghi e ben distesi…” Sembra incredibile ma è così: sta nascendo

il Milan dei sogni e dei record.

La stagione successiva Berlusconi affida la conduzione tecnica del

Milan a Sacchi, quello del famoso “cul de sac” (non l’ho detto io,

potete crederci), un omino romagnolo che fino a qualche tempo

prima girava l’Europa come rappresentante di scarpe. Insomma,

uno che di piedi se ne intende. E dopo un po’ sembrerebbe doversi

intendere anche di panettoni, dato che i risultati sono poco incoraggianti

e di lui si dice che non arriverà a mangiarlo. Intorno alla sede del Milan,

sui tetti, dietro le tendine delle finestre, prosperano cecchini dalla mira

perfetta che non aspettano altro che un ordine di Galliani per crivellare

Sacchi come una groviera. Galliani è in stato di allerta ogni ora del

giorno e della notte in attesa di ordini, Berlusconi è in stato di allerta

ogni ora del giorno e della notte in attesa di ordini, ma di chi, dato

che deve darli lui?…Già, dimenticavo…

Succede che Berlusconi aveva preso la decisione di sopprimere Sacchi,

ma proprio mentre si accinge ad inviare l’ordine a Galliani, squilla il telefono:

è Piero Angela che gli comunica di avere importanti notizie sul punto G.

Se vuole averle deve però sintonizzarsi sul canale della concorrenza,

la Rai, e vedere “Il mondo di Quark”. Silvio corre alla televisione, le mani

sono sudate dalla tensione, gli scivola il telecomando che non ha ancora

il guscio Meliconi perché deve essere inventato, torna alla scrivania e

segna sull’agenda “Meliconi” per ricordarsi che deve inventarlo lui per

primo così lo chiamerà “Berlusconi”, torna alla televisione, la accende,

ma sbaglia canale e trova una TV erotica. Dato il tema pensa di essere

sintonizzato sul “Mondo di quark” ma dalle quattro persone intorcinate

escono mugolii indistinti e in mezzo a quel groviglio è impossibile trovare

dove si nasconda il punto G. Come cercare un ago in un pagliaio; e

del pagliaio il groviglio ha sempre più la forma  dato che ai quattro si

sono aggiunti il portiere, la portiera e il garzone del macellaio. Ormai

non si sa più chi sia il padrone di quella cosa o di quel coso, ma quello

che importa è che si sia scordato completamente di Sacchi e di Galliani.

Praticamente da quel groviglio il “cul de sac” è uscito rinvigorito, a fine

stagione il Milan vincerà il primo scudetto dell’era Berlusconi, con

Sacchi tarantolato a fare avanti e indietro tra campo e panchina

a dispetto delle emorroidi  e di Maradona. Ancora meglio andrà

l’anno successivo quando il suo Milan vincerà la Coppa dei Campioni.

Qui addirittura accade l’incredibile. Siamo a Belgrado, serata invernale,

stadio colmo ai limiti della capienza, incontro Stella Rossa – Milan .

Il Milan sta perdendo 1-0, la partita di andata è terminata 1-1 e se

finisce così il Milan è fuori dalla Coppa. La squadra non sembra

farcela da sola, ha bisogno di un aiuto, ma di chi? Berlusconi è

in tribuna con tutto il suo staff, Galliani, Fede, Confalonieri, le guardie

del corpo, i fedelissimi. D’un tratto si alza, nessuno riesce a trattenerlo,

intraprende una fuga verso l’uscita di sinistra e si fionda al bar:

ordina 100 panini imbottiti di tutto punto di wurstel, luganiga, salsicce

e tante, tante cipolle e ketchup e maionese. Il bar è efficiente e prepara

il tutto in un battibaleno senza lesinare nulla, lui paga, prende l’enorme

cartoccio e torna su di filato. La partita va sempre male e ormai ci sono

solo una ventina di minuti del secondo tempo per rimediare alla batosta.

Ordina ai suoi di ingozzarsi il più in fretta possibile, promette a Galliani

dodici cravatte gialle se mangia due panini, a Fede non ce n’è bisogno

tanto fa quello che gli si dice, con Confalonieri c’è qualche problema

perché ha il colesterolo alto, ma lui lo minaccia di divulgare alcune battute

a vuoto con un paio di amiche e al buon Confalonieri torna l’appetito.

In un batter d’occhio non resta una briciola. A quel punto il Berlusca

ordina a tutti di ruttare verso il campo all’unisono: “1-2-3 via…1-2-3

via…1-2-3 via…”.

Qualcosa di putrido e spesso come un mattone di tufo scende sul

terreno di gioco, dopo qualche attimo i giocatori devono toccarsi

per sapere che fino hanno fatto i loro attributi, tanto non si riesce

a vedere da qui a li, l’arbitro che si crede cieco e stordito dal fetore

decreta la sospensione della partita. Nessuna telecronaca ci fece

mai vedere le immagini delle file immediatamente sottostanti lo staff

milanista, ma si dice che molti di loro furono poi ritrovati in una fossa

comune appena fuori allo stadio: fatta l’autopsia, la morte risaliva a

quella sera, non alla guerra civile di qualche anno dopo. Il Milan vinse

ai rigori la ripetizione della partita e si involò verso la prima Coppa

dei Campioni dell’era Berlusconi. Il “cul de sac” aveva colpito ancora.

Pare che sull’aereo di ritorno a Milano si siano creati diversi vuoti d’aria

dovuti a turbolenze non meglio specificate. Per la cronaca il DC9 che

riportava Berlusconi e C. in Italia aveva due WC, entrambi occupati

dall’inizio alla fine del viaggio da Confalonieri e Fede. Galliani durante

il viaggio ebbe diversi strabuzzamenti oculari, ma visitato dal medico

di bordo venne rassicurato che il suo aspetto sarebbe tornato normale.

Galliani lo sta querelando in questi giorni per omissione di soccorso.





Nessuno si è mai chiesto come mai Galliani e la moglie si separarono

proprio dopo la vittoria del Milan a Perugia e la conquista del suo 16mo

scudetto? Quella partita passò alla storia più per le manifestazioni di

Galliani in tribuna che per il gioco, ma anche stavolta la verità supera

ogni immaginazione. Quell’uomo stravolto nei lineamenti, gli occhi di

fuori, al limite del collasso, che saltava e si sbracciava ad ogni gol del

Milan NON era Galliani, ma la sua ormai celebre controfigura Teo Teocoli.

La moglie vide le prodezze del marito in televisione e non rimase stupita

più di tanto: anche nel pieno della passione amorosa, qualche stranezza

l’aveva sempre dimostrata, faceva ogni volta salti fino al soffitto per

cambiare posizione, voleva essere chiamato “Presidente mio” al

culmine dell’orgasmo, vietava qualsiasi approccio sessuale a partire

da due giorni prima della partita. E con il Milan occupato anche nelle

Coppe europee, ormai lei era costretta alla vita monacale.

Tornando a quel giorno, però, dov’era Galliani, se non era allo Stadio?

Galliani si era chiuso in un appartamentino della Perugia storica,

radiolina ben incollata all’orecchio, in casa di un’amica occasionale,

conosciuta la mattina mentre prendeva un cappuccino al bar in Corso

Vannucchi. Lei gli aveva detto “Che begli occhi che hai! Nascondono qualcosa…”

e lui per la prima volta aveva tradito anche il Milan , ma non prima di aver

mandato una controfigura allo Stadio per salvare la facciata. In effetti Galliani

dietro quegli occhi può nascondere qualsiasi cosa, anche un trumeau se ci

si mette di buzzo buono, e questo potrei dirglielo anche io, ma un complimento

detto da una bella donna fa sempre un certo effetto e poco importa se è una

piccola bugia; in fondo è sempre un segnale di apertura. Quella mattina, girò

un po’ per Perugia, andò al campo a salutare la squadra, tornò al centro a

comprare una scatola di “Baci” tanto per essere originale, si sistemò l’auricolare

della radiolina nell’orecchio rimpiangendo di non avere i capelli per non farlo

vedere e bussò all’interno 3 del civico 46. Lei gli rispose subito e lo accolse

in vestaglia di seta con ampia scollatura. Lui le dette i “Baci” con un sorriso

carnivoro che lasciava presagire tutto quello che poteva fare in quanto ad arti

amatorie e anche di più, lei guardò i cioccolatini fingendo sorpresa neanche

fossero “Made in Hong Kong”, accettò con un sorriso la scatola e la posò

sul tavolo. Per rompere il ghiaccio, gliene porse uno, Galliani sorrise ancora,

lo scartò, svolse il bigliettino con la massima per gli innamorati e finse di leggerlo.

In realtà era molto più interessato alle notizie sulle formazioni che venivano dalla

radiolina.

 Tanto per dire qualcosa chiese:”Ma non è in questi che c’è il liquore con la

ciliegina?” Lei lo guardò come si guarda un alcolizzato all’ultimo stadio, ma

non gli rispose e lo guidò con aria complice in camera da letto. Galliani cominciò

a togliersi la giacca, la camicia, il pantalone, i calzini, le mutande, anche il

Breil, ma rimase con l’impermeabile chiaro e la cravatta gialla indosso. Il tutto

causa radiolina e auricolare. Il filo dell’auricolare partiva dalla radio nascosta

nella tasca dell’impermeabile, passava dentro la cravatta e gli finiva nell’orecchio,

non visibile se si presentava sempre dallo stesso lato alla ragazza. E così

cominciò a fare. Lei era nuda sul letto e lui, seduto di fianco con l’impermeabile

e la cravatta aspettava che lei facesse la prima mossa. Pretese il buio più

completo adducendo una timidezza istintiva, e giustificò il rimanere bardato

in quel modo come una piccola  mania. Lei la bevve e cominciò a strofinarsi

contro di lui, ma Galliani rimaneva assorto, come concupito da altri pensieri.

Non prendeva l’iniziativa, non partecipava tanto che lei ad un certo punto se

ne uscì esasperata:” Oh, ma ‘un sai neanghe ghe c’ho il punto gine!” Lui pensò

ad un difetto della pronuncia, poi quel “gine” non sapeva proprio cosa fosse,

ma non fece in tempo a risponderle che proruppe in un urlo sovrumano: il Milan

aveva segnato: Lei prese quell’intemperanza come l’urlo d’amore del guerriero

e raddoppiò i suoi sforzi, ma lui aveva cominciato a fare la OLA ed era

diventato difficile stargli dietro. Cercò di tenerlo per l’impermeabile, ma

era impossibile, gli scivolava dalle mani come un gatto in piena trance

agonistica. Nei televisori un altro Galliani faceva cose da educanda. Il

peggio arrivò quando lui pretese di buttarsi faccia a terra a braccia larghe

con lei sotto per festeggiare lo scudetto in arrivo. Lei si oppose con tutte

le sue forze, lui finì col farlo da solo distruggendo un comò del ‘600 italiano

che durante la guerra aveva passato indenne la linea Gotica, due vasi cinesi

e una poltroncina d’antiquariato lombardo. A quel punto Galliani si rivestì

di tutta fretta infilandosi camicia e giacca sull’impermeabile e si precipitò

allo stadio per brindare a champagne alla conquista dello scudetto.

Purtroppo infiltrato tra i tifosi in tribuna c’era un interista che dopo un po’

aveva scoperto la vera identità del sedicente Galliani; incazzato nero per

lo scudetto vinto dai rivali passò tutto il viaggio di ritorno a scrivere una

lettera che una volta arrivato a Milano imbucò alla Stazione Centrale.

Dopo un paio di giorni la moglie di Galliani chiese il divorzio.

Risulta ben chiara ormai la decodificazione del sogno di quel Berlusconi

ancora giovane davanti alla statua di Padre Pio a Pietralcina. Ormai si

era avverato quasi tutto: le televisioni, le maglie rossonere dell’amato

Milan, tutto coincideva per far sentire Silvio come l’uomo del destino.

Ormai aveva anche capito cosa fosse un lifting e per prova l’aveva anche

fatto fare ai suoi due dobermann della villa di Arcore e a Gianni Letta. Ormai

anche la sua vita politica era ad una svolta: aveva fondato un partito

chiamandolo sempre con grande originalità “Forza Italia”, aveva dichiarato

odio imperituro al Comunismo e alle tasse, aveva stretto accordi con

Fini e Bossi per una coalizione ancora più forte. Bisognava decidere

chi fosse il capo di questa coalizione: scelse il modo più democratico.

Prese tre stuzzicadenti, ne fece uno più corto, prese la colla ai siliconi

e se lo attacco alle dita, impugnò anche gli altri due e, davanti alla tavola

imbandita, fece scegliere ai due compagni di scalata. Fini ne prese uno,

Bossi provò a tirare uno stecchino, questo non ne voleva sapere di venire

via, bestemmiò in lumbard e prese l’altro. Trionfante, Berlusconi mostrò

agli altri lo stuzzicadenti più piccolo: era rimasto a lui e a lui sarebbe

toccato comandare.

Dalle sue televisioni ormai partivano inviti agli Italiani, chiari e sottintesi,

a votare per Forza Italia. Ormai si era circondato di uno staff indivisibile

che lo avrebbe seguito fino alla morte: una Crociata. Alcuni nomi?

Maurizio Costanzo, conduttore del “Maurizio Costanzo Show” che in una

puntata aveva dichiarato candidamente che il suo punto G si trovava

esattamente tra i due incisivi ecco perché la “esse” veniva fuori in quel

modo. Lui godeva tantissimo nel pronunciare in televisione parole con

molte “esse”, la gente faceva fatica a seguirlo, esasperata per quei sibili

da rettilario, e lui guadagnava divertendosi; il sempre fedele Emilio Fede,

Paolo Liguori, Alessandro Cecchi Paone, l’alter ego di Piero Angela

che, belloccio e bravino com’è saprà senz’altro dove sia il punto G

ma non lo vuole dire agli altri, Vittorio Feltri che pensa che il punto G

sia una rivendita di giornali, Giorgio Mentana.

Nonostante l’attaccamento alla madre patria, qualcuno di questi signori

ogni tanto ha avuto qualcosa da ridire. Come quella volta che Cecchi

Paone si incazzò di brutto perché era arrivato secondo al Telegatto.

Appena saputo del verdetto, inforcò con rabbia il cellulare e chiamò il

Cavaliere in persona. E giù vituperi, “E’ un’ingiustizia, però…”, “Me ne

vado…” finchè il Cavaliere non tentò un compromesso: “Ti consegno

il Telegatto in persona se mi dici dov’è il punto G”. Cecchi Paone ci

pensò su un attimo, poi alzò il tiro e pretese due testimoni: Piero Angela

e Mario Tozzi (quello di Gaia).

 Di testimoni se ne presentarono tre, anzi qualcuno in più: Piero Angela,

seguito come un’ombra dal figlio che teneva al guinzaglio un velociraptor,

e buon ultimo Mario Tozzi con la sua inseparabile piccozza. Si trovarono

a casa di Berlusconi e Mario Tozzi cominciò subito a picconare sul muro

dell’enorme atrio di ingresso di Arcore per vedere se la casa aveva fondamenta

solide o i tramezzi erano fatti con mazzette da 100.000 come gli avevano

raccontato. Il velociraptor ingaggiò subito una furiosa battaglia con i dobermann

uno dei quali perse il lifting e, dopo uno sguardo allo specchio, iniziò a

guaire disperato. Velociraptor e figlio di Angela sparirono all’inseguimento

del dobermann superstite nelle ombre della sera: sembra che velociraptor e

cane abbiano scoperto vicendevolmente i rispettivi punti G e ora convivano

felicemente nei dintorni di Arcore. Scienziati stanno studiando i cuccioli nati

dall’unione per cercare di dare un nome alla specie.

Nella villa i quattro cominciarono a discutere sull’importanza dell’atto sessuale

nell’unione tra due sessi: per la verità Berlusconi si manteneva un po’ in

disparte, forte del fatto che alla fine avrebbe sciolto il suo dilemma, mentre

i tre conduttori si accanivano su diverse teorie. Il primo a tirarsi fuori fu

Piero Angela: “Ero venuto qui soprattutto perché qualcuno mi ricordasse

cosa si intende per atto sessuale, il punto G viene dopo. Prima bisogna

gettare le basi della conoscenza, poi scendere nei particolari…”Rimasero

a discutere Cecchi Paone e Tozzi, i due virgulti della compagnia che avevano

le idee più chiare sui rudimenti del problema. Cecchi Paone proiettò un

paio di slide, ma alla terza Tozzi sferrò una picconata allo schermo che

finì in mille pezzi. I due stavano per venire alle mani e a nulla valevano

le giustificazioni di Tozzi che continuava a dire: “Il punto G è interno

all’essere umano, occorrevano riprese con una microcamera interna…”

E giù altre picconate alla cieca. Una colpì sul ginocchio Piero Angela che

ne approfittò per sondare le meraviglie delle articolazioni del corpo umano

e lanciare un nuovo programma alla Rai su tre puntate, con annesse VHS

da comprare in edicola. Gli erano bastati pochi minuti di conversazione con

Berlusconi per capire che “Tutto è business”: un vero Genio! Nel frattempo

Mario Tozzi e Cecchi Paone, dapprima avvinghiati nella rabbia, si erano

fidanzati aprendo nuove prospettive alla loro ricerca; soprattutto Mario Tozzi

teneva pencolante in mano il piccone dettando appunti in un miniregistratore

che teneva in tasca. Il Cavaliere decise che anche quella volta non sarebbe

riuscito a cavarne un ragno dal buco, prese un Telegatto dalla libreria e lo

tirò verso Cecchi Paone colpendo Mario Tozzi al gomito: Piero Angela ne

trasse altro materiale per il suo programma. Uscirono tutti e tre nel buio

di Arcore insalutati ospiti, con Silvio che mestamente frugava nelle tasche

se per caso fosse avanzato un punto G.

Ormai capo del Governo in Italia, padrone di tre televisioni e del Milan,

Silvio Berlusconi era pervaso da un’idea fissa: dove fosse questo benedetto

punto G. Un aiuto inaspettato sembrò giungergli da uno dei convegni che

i rappresentanti dei paesi più industrializzati tengono periodicamente: il G7.

Quella sigla sembrava avere qualcosa di molto familiare con il suo problema

e immediatamente chiamò Piero Angela per chiedergli se vi trovava attinenze.

Piero Angela ci pensò su un attimo, chiese un ulteriore pausa per il pranzo

lasciando il conto da pagare al Cavaliere, poi lo richiamò direttamente sul

telefono privato. Aveva composto una formula matematica che non poteva

essere sbagliata: G moltiplicato G7 = 7 volte G al quadrato. Il che, spiegò,

in parole più povere voleva dire che più erano le donne sottoposte al trattamento,

più erano le probabilità di trovare almeno 1 punto G. Era un teorema che

apriva squarci inaspettati soprattutto sul mondo islamico e chiariva le idee

sul motivo per cui quella religione consente la poligamia. Per avvicinarsi ancora

di più alla soluzione bastava aggiungere un’incognita e, senza voler scendere

in particolari troppo tecnici, la soluzione era che la donna doveva stare sopra

e l’uomo sotto. Qui però il discorso si fece frammentario anche perché Angela

cominciò a chiedersi se i due stessero lottando o giocando e qui al Cavaliere

cascarono le braccia. Le rialzò solo in occasione della foto ufficiale del G7

quando, messo in seconda fila, pensò bene di aprire indice e mignolo sulla

testa di Aznar mostrando ai fotografi la mano chiusa a pugno con le due

dita sporgenti. Gli era tornato il sorriso a 32 denti e aveva dimenticato

il suo annoso problema.

La storia di Berlusconi non è poi tutta costellata di successi. Basta pensare

a quella volta che prese Fini e Bossi e si recò alla sede della Lavazza.

Scopo della visita: prendere il posto di San Pietro, Laurenti e Bonolis

nello spot del caffè. Questo obiettivo veniva visto come molto importante 

strategicamente  nella marcia di avvicinamento al Padre Eterno, quindi

all’onnipotenza assoluta. Berlusconi voleva ad ogni costo il ruolo di San

Pietro con tutti gli annessi e connessi che ne derivavano: chiavi del Paradiso,

potere decisionale sulle entrate e sulle uscite delle anime, giurisdizione su

tutti gli altri santi.

Arrivarono una mattina alle 10 in punto, Berlusconi nel tradizionale blazer

blu, Bossi in camicia a scacchi, pantaloni da cacciatore e fazzoletto verde

al collo e Fini che per non essere da meno di Bossi si era fatto prestare dalla

moglie una sciarpa da Ultras della Lazio. Chiesero del Comm. Lavazza e

furono subito introdotti in un ascensore a cielo aperto a forma di chicco di

caffè con panorama sul Purgatorio. Il comm. Lavazza per non essere da

meno del Lingotto della Fiat, aveva chiamato la sua sede “Il ristretto” e infatti

il palazzo era una Piramide con punta verso l’alto: all’ultimo piano, come è

giusto, l’ufficio del Capo. L’ascensore arrivò direttamente dentro l’ufficio e il

comm. Lavazza, in seduta plenaria con la segretaria sulle ginocchia, afferrò

distrattamente un orecchio di Bossi credendo che fosse il caffè che aveva

ordinato poco prima. Bossi bestemmiò in lumbard e Berlusconi gli sferrò un

tremendo ceffone sull’orecchio rimasto libero: in fin dei conti si era nell’anticamera

del Paradiso…

Si accomodarono e Berlusconi prese la parola: declamò le referenze al

Comm. Lavazza a cominciare dal miracolo della nebbia di Belgrado e

terminando su come era riuscito a farla franca in tutte le ispezioni della

finanza alla Mediaset. Il comm. Lavazza  lo ascoltò attentamente, poi

chiese se gradivano un caffè. Stranamente il caffè venne ordinato al

Bar lungo la strada dove campeggiava un’ insegna Illy visibile fino ad

Abbiategrasso, la segretaria, in minigonna da autopsia sommaria, andò

a prenderli al montacarichi e porse una tazzina a Bossi che, per farsi perdonare

la bestemmia di poco prima, le passò in rassegna prima le cosce poi il dietro e

infine arrivò a prenderla. Il caffè nel frattempo si era raffreddato, e Bossi

bestemmiò mentalmente in lumbard.

Intanto il Comm. Lavazza declamava le proprietà di quel caffè : “Guardate che

crema! Sentite che aroma!”. Nel sentire la parola aroma a Fini scattò un riflesso

condizionato, frutto di tutte le volte che aveva accompagnato la moglie allo

stadio e cominciò a sventolare la sciarpa biancazzurra, a fare la OLA e a

insultare pesantemente i giocatori della formazione della Roma. In pieno

raptus da tifo scambio il fazzoletto verde di Bossi per giallo-rosso, prese il

leader della lega per il collo e lo scosse come se stesse preparando un cocktail

che chiamò “Lumbard”.

Berlusconi già pregustava il nuovo ruolo di San Pietro, ma il comm. Lavazza lo

gelò:”Vedi Silvio, i tre dello spot ci sono stati raccomandati molto dall’alto ed è

impossibile sostituirli. Vi proporrei tuttavia uno spot per la Illy, sempre di caffè

si tratta…La Illy come sapete è di Trieste, città vicina al confine con la Croazia.

Il titolo dello spot sarebbe:”Illy, il caffè senza confini” e voi potreste fare i tre

doganieri…”Il Cavaliere si riservò di dargli una risposta e dentro di sé cercava

di capire chi poteva aver raccomandato così fortemente Bonolis, Laurenti e San

Pietro alla Lavazza; finalmente se ne ricordò: era stato lui!..

 Incazzato come una iena richiamò Fini, il cocktlail di Bossi e si avviò all’ascensore.

Si sbagliò e spinse il bottone del secondo seminterrato dove si faceva il caffè:

il guardiano all’ingresso infilò loro in testa un elmetto, mise in mano un piccone

e, credendo fossero avventizi, ordinò loro di tirare fuori almeno un barile di chicchi

dalla miniera. Alla fine della giornata, esausti e con i barili pieni solo per metà,

furono frustati a sangue per non aver svolto interamente il loro compito e a nessuno

venne il benché minimo dubbio se il caffè nasce da una piantina o cresce in miniera.

Un paio di insuccessi Silvio, quasi a voler dimostrare che la perfezione non esiste,

li rimediò anche in campo calcistico. Qualche adulatore sedicente tifoso milanista

lo aveva convinto di essere un grande allenatore oltre che un mega Presidente.

Decise quindi di sua iniziativa, senza neanche consultare Sacchi, di portare niente

meno che Diego Maradona alla corte del Milan; per fare questo passò da Galliani

in piena notte, lo buttò giù dal letto, e in capo a dieci minuti erano sull’Autostrada

che sfrecciavano a bordo di una Lancia Thema verso Napoli. Per passare ancora

più inosservato, soprattutto con la stampa, aveva depistato con uno stratagemma

le body guards e si era vestito in camicia di flanella e pantaloni di fustagno

abbandonando il doppio petto blu cui tutti in Italia siamo abituati e aveva convinto

Galliani a indossare una parrucca color grigio topo da donna attempata e un sobrio completino con giubbino di “pile”: così camuffati sembravano una collaudata coppia

in viaggio verso la Costiera Amalfitana. Si era in pieno inverno e sull’Appennino

Tosco Emiliano trovarono la nebbia e la neve tanto che Galliani fu costretto a mettere

testa e parrucca fuori dal finestrino per seguire le righe della strada e avvisare il capo,

che guidava, dell’avvicinarsi delle curve. Per colmo di sventura dovette anche montare le

 catene, cosa che fece rimpiangendo la vecchia vita del montatore di antenne, priva sì di grosse soddisfazioni ma sicuramente meno stressante. Dopo aver evitato due Tir in

sbandata con violente sterzate e raid sulla corsia di emergenza, riuscirono a tirarsi

fuori da quel girone dantesco e ripresero la  corsa verso Napoli.

 La squadra partenopea era sul piede di partenza per un’importante trasferta di

Coppa dei Campioni in Russia e, finalmente arrivati in città Galliani e Berlusconi

incocciarono in gruppuscoli di tifosi che, urlando slogan e sventolando bandiere

azzurre, si avviavano a seguire la squadra a bordo del Trans Europe Express

(sarebbero arrivati in primavera con il Napoli ormai fuori dalla Coppa) .

Berlusconi ebbe la geniale idea di tirare fuori la mano e mostrare indice e mignolo

alzati attirandosi dietro una sonora dose di pernacchi e contumelie che ferirono profondamente anche la “signora” che aveva accanto.

Non era un buon momento per il Napoli: Maradona, il trascinatore, marcava visita

spesso e volentieri e, anche in quell’occasione, aveva preferito rimanersene a

casa, al calduccio, con la scusa del mal di schiena anziché andare a sgomitare

dietro un pallone in un mare di fango. Finalmente arrivarono a Posillipo, dove

abitava il campione ma lì trovarono fuori della porta di casa alcuni calciatori

della squadra, Ferrara, Bagni e Giordano. Berlusconi pensò immediatamente

a una fuga di notizie e si rabbuiò; fu la moglie, pardon Galliani, a rassicurarlo.

Il fedele gregario aveva infatti prestato l’orecchio a quello che dicevano i tre che,

valigie in mano, cercavano di convincere da dietro la porta il compagno a seguirli

nella trasferta. Un “nooooooo…” prolungato era echeggiato per tutta Posillipo

e i tre se ne stavano ormai andando sconsolati senza neanche prestare attenzione

alla coppia ferma sul pianerottolo. Mentre Galliani era impegnato a scrivere

una bozza di contratto da far sottoscrivere a Maradona, Berlusconi tirò fuori

dal cilindro magico la voce più suadente di cui disponesse:”Ciao Diego, sono

Silvio Berlusconi, mi faresti entrare?””Chi è ancora?..” replicò seccato l’argentino.

Senza spazientirsi Silvio ripetè, sempre con la massima dolcezza:“ Sono

Berlusconi, il Presidente del Milan, vorrei farti una proposta…””Che vuo’?”

biascicò per tutta risposta lui da dietro la porta. “Perché non vieni al Milan?…”

Maradona smise di dare il latte con il biberon al figlio illegittimo, posò la canna

che di tanto in tanto aspirava con voluttà e si grattò la testa sotto una cascata

di riccioli. Poi cominciò a snocciolare una serie di richieste economiche e non:

voleva mezzo miliardo di ingaggio a partita, una Ferrari con autista, un

appartamento con vista Madonnina e una garconniere con vista Scala,

permesso garantito, nei giorni di lunedì, martedì e mercoledì, di andare

a pescare lucci nel Naviglio e giovedì, venerdì e sabato di frequentare

le migliori case d’appuntamento di Milano, coca garantita, tasse pagate,

uno stock di biglietti della tribuna d’onore omaggio per ogni partita, tre

baby sitter possibilmente carine, il frigorifero pieno e un aereo personale

con cui raggiungere L’Avana due volte al mese per vedersi col fraterno

amico Fidel Castro.

Galliani invece del contratto si era ormai rassegnato a fare una lista della

spesa; Berlusconi, sentendo ormai la trattativa in pugno, disse sì a tutte

le condizioni, ma su una cosa rimase irremovibile: niente aereo personale

e niente visite a Fidel Castro. Maradona indispettito cominciò a battere i

piedi sul pavimento, dal pianerottolo Silvio faceva altrettanto. Alcuni

condomini cominciarono ad affacciarsi alle porte pensando a un gruppo

di suonatori che avesse intonato una tarantella napoletana; dagli ultimi

piani arrivarono anche alcune monete da 500 lire che Galliani, parsimonioso,

si sbrigò a raccogliere e mettere in tasca, qualcuno aveva cominciato anche

a battere aritmicamente le mani. Nessuno dei due volle demordere e fu così

che Maradona rimase ancora un po’ dov’era mandando Ferlaino al manicomio

e i compagni di squadra a quel paese.

”Comunista!” bisbigliò Berlusconi guidando come un pazzo nel congestionato

traffico di Napoli.

Non andò meglio qualche tempo dopo con Gascoigne che si presentò nella Sede

del Milan in canottiera blu da camionista, bottiglia di birra in una mano e

camminando al ritmo di poderosi rotti che facevano tintinnare i vetri delle finestre.

Attirato da quel fracasso Berlusconi uscì dall’ufficio, ma mentre si faceva incontro al calciatore, mano destra tesa per il saluto e sorriso delle grandi occasioni, questi,

nell’intervallo tra un rotto e l’altro, anticipò il suo saluto esclamando “Fuck off”

mentre con la mano destra si dava un’energica grattata al di dietro.

Silvio decise di passare sopra alle stravaganze dell’inglese, già pregustando

divine giocate sul prato verde di San Siro. Lo guidò nel suo ufficio, ma dovette

sorreggerlo perché, finita la crisi di aerofagia Gascoigne stava barcollando pur

continuando a sostenere che le sue erano finte di corpo. Nemmeno il tempo di

adagiarsi su una poltrona che cadde in un sonno profondo, russando come un

mantice e con le gambe accavallate sulla scrivania del Presidente. Berlusconi

ne approfittò per convocare l’allenatore Cul de Sac Arrigo Sacchi e mostrargli

il nuovo gioiello, ma questi gli fece la traduzione letterale del saluto dell’inglese

di poco prima e Silvio, guardandosi intorno con l’aria smarrita di chi non si

aspettava una simile reazione, riattaccò. Chiamò due body guards che presero

di peso Gascoigne e lo depositarono ancora dormiente e sbronzo sul

marciapiede da dove finì dritto in questura per ubriachezza molesta verso

una settantenne.

Uno dei pregi di Berlusconi è che non mette mai limiti alla Divina Provvidenza;

il suo motto è “Caso mai li metto io…” Sarà perché ogni cosa che fa ce la

illustra come una missione, ma c’è in lui qualcosa di trascendente. E’ partito,

come abbiamo visto, da un’orchestrina ed è arrivato, seppure in visita, alla

Casa Bianca. Già, perché mai nessun italiano che conti si è sentito così vicino

e così tenuto in considerazione dal presidente degli Usa come Berlusconi.

In effetti i punti in comune abbondano. Sia Bush che il Cavaliere sono dei

missionari nel senso che entrambi si sentono mandati sulla terra per svolgere

una missione e per questo lavorano. Poco importa se poi ci scassano le palle

che rotolando, rotolando insieme al resto finiscono sull’orlo di un precipizio:

a quel punto il problema è nostro, non più loro. Bush, che non è mai stato

una cima né negli studi né negli affari, ha sempre goduto di grosse protezioni

dall’alto, vuoi perché il paparino è stato Presidente USA, vuoi perché il benessere

chiama il benessere e quindi, anche considerandolo un deficiente, tutti si sono

fatti in mille pezzi per portarlo dove è arrivato.Religioso fino al bigottismo,

George W. non fa nulla senza prima aver declamato il Rosario (fatto da lui

stesso con trecce d’aglio)  e sentito il parere di Condor Liza.

Per pregare più forte la prima volta che si sentì con Berlusconi si mise d’accordo

con lui per dire insieme il Rosario, compatibilmente con i fusi orari. Stabilirono

di mettersi d’accordo per telefonarsi alle 18,30 ore italiane, le 12,30 a Washington

e pregare insieme, Berlusconi a dire la prima parte dell’Ave Maria e Bush la

seconda a giorni alterni, per non sentirsi superiori l’uno all’altro. Infatti dalle

18,30 alle 19 è impossibile stabilire un contatto con Berlusconi.

Non si può sapere se il Padre Eterno ascolti le preghiere dei due premier o

no, il fatto è che un giorno Bossi cercò di contattare Berlusconi alle 18,45,

non ricevendo risposta al cellulare andò nel suo studio di Montecitorio,

bussò, nessuna risposta, allora prese coraggio ed entrò e non visto ascoltò

Berlusconi che diceva: “…allora siamo d’accordo, puntami 10 milioni di

dollari a Wall Street sull’aumento del petrolio, mi vendi 500000 Esso e

acquisti 1000000 Shell. Io ti acquisto allo scoperto 800000 Mediaset e

vendo le Alitalia. Ciao George”. Per ritegno Bossi richiuse silenziosamente

la porta, ma ormai era chiaro che George W. e Silvio si scambiavano consigli

e ordini di borsa, altro che “ora et labora”…Bossi prese il telefono e chiamò

Striscia raccontando tutto quello che aveva sentito e infarcendolo di bestemmie,

ma un ordine dall’alto intimò di insabbiare tutto, prove comprese

Alle 10 di quella sera Bossi ricevette una strana telefonata da un tale che

diceva di chiamarsi Pontida e che lo invitava a farsi trovare di lì a un’ora

sul molo di Rimini.

“Come cazzo faccio a stare a Rimini in un’ora!?” rispose Bossi, ma dall’altra

parte avevano già riattaccato. Bossi si mise addosso le prime cose che trovò

e tempo un minuto, vestito completamente di verde come Peter Pan sfrecciava

sulla sua Multipla Abarth versione Giannini con cerchi in Lega, marmitta in lega,

cofano in lega, sportelli, bagagliaio e cofano in lega verso il litorale.

Sfrecciò a 240 all’ora davanti a quattro posti di blocco, ma decise di non

fermarsi, nel frattempo il numero di targa era finito a tutte le centrali della

Polizia, della Guardia di Finanza, della Forestale e della Nasa ed era debitore

verso lo Stato di 89 punti sulla Patente. Detto per inciso, per legge quando

si accumulano tante sanzioni oltre il massimo di 20, i punti sulla patente che

si devono allo Stato non vengono ripianati con un nuovo esame, ma devoluti

ai bambini del Biafra; sotto questo aspetto quindi, Bossi aveva fatto un’opera buona.

 Il leader della Lega arrivò al molo di Rimini quando mancavano tre minuti

all’appuntamento ma qui, purtroppo, in mancanza di prove dirette, possiamo

contare solo sul racconto di un testimone, peraltro attendibilissimo e di cui per

motivi di privacy tacciamo il nome. “

Alle 11 esatte un tizio vestito da Peter Pan fu visto scendere da una Multipla

e affiancare da tre tizi, uno in impermeabile due vestiti da veline, con minigonne

vertiginose e stivaloni neri.

Visti da dietro è impossibile giurare se fossero uomini o donne. Fatto sta che,

dopo un veloce conciliabolo in cui il tizio vestito da Peter Pan diceva due parole

e quattro bestemmie in dialetto forse lombardo, i quattro si sono avviati verso

la spiaggia, lì il Peter Pan ha scavato una buca, c’ha infilato la testa dentro

mentre uno dei due vestito da velina gli calava la tutina e lo frustava

energicamente sul culo”.

Il testimone deve aver pensato ad un rito sado-maso e ha sporto denuncia per

atti osceni in luogo pubblico, ma al Posto di Polizia hanno spiegato che, stante l’insabbiamento della testa, si sarebbe potuto trattare di un nuovo rito importato

dalla mafia russa mentre i travestimenti da Peter Pan e da veline potrebbero

far pensare anche a un regolamento di conti tra no-global. 

Come dicevamo Berlusconi e Gorge W. Bush hanno molte cose in comune

il che ha reso semplicissima un’amicizia e una comunanza di intenti che si

può ben dire travalica l’oceano. Una di queste è la costante ricerca del famigerato

punto G. In effetti si erano presentati qualche istante prima che già Silvio aveva

chiesto ragguagli al collega americano che senza pensarci su due volte,

per compiacerlo, convocò l’ONU in seduta plenaria. Solo, sarà stata la

pessima pronuncia di Berlusconi, sarà che Bush come al solito aveva

capito fischi per fiaschi, all’ONU la domanda arrivò così:” Do you know

something about Point J?” (“Sapete qualcosa sul punto J?”).  Condor

Liza alzò il capo perplessa e subito pensò a qualche arma chimica in

mano a Saddam Hussein, tutti gli astanti si guardarono l’un l’altro dubbiosi

e ansiosi che chissà quale catastrofe incombesse sulle loro teste,

immediatamente scattò l’allarme viola del “Day After allerta”, vennero

fermate tutte le metropolitane, i taxi raddoppiarono gli scatti sulla singola

corsa, i supermercati furono svuotati fino all’ultima scatola di stuzzicadenti

e nelle farmacie ci fu una vendita massiccia di preservativi, cosa che ha

poi fatto scattare uno studio psicologico sulla reazione del singolo individuo

ai diversi stati di stress emotivo. L’11 settembre era ancora di là da venire,

ma l’americano ha sempre convissuto con uno stato  di sottile angoscia

dovuto all’incertezza del posto di lavoro, soggetto ai budgets, alle ansie

da record per essere sempre primi in ogni cosa, ai film catastrofici ideati

a Hollywood, per cui una domanda del genere si insinuava sottile sui

nervi scoperti e generava reazioni sproporzionate di questo genere .

Figuriamoci poi se il senso della domanda viene stravolto! Un cataclisma.

Silvio rimase anche quella volta senza risposta, ma si sentì molto più unito

al suo nuovo amico che evidentemente sul punto G ne sapeva quanto lui.

Esaltato per la nuova amicizia cominciarono a scendere più nei dettagli e

seppe che, timoroso di Dio, George W. faceva l’amore vestito, si metteva,

non visto dalla moglie, le dita nel naso e incollava il frutto delle ricerche

sotto la scrivania dello studio ovale, aveva la collezione di tutti gli Air Force

One da Lincoln ai giorni nostri e di tutte le bamboline di Barbie compresa

quella, introvabile, in cui è congiunta con Ken in un focoso amplesso.

Gli confessò che a 9 anni fu sorpreso dal nonno a fumare nel cesso;

si giustificò dicendo che era una sigaretta di cioccolato, di quelle che

si trovano nelle calze della Befana, ma la puzza di fumo lo tradì e il nonno,

infuriato non si sa bene se più per la sigaretta o per la cazzata, gli spense

il mozzicone sui denti. Quel giorno George W. promise a se stesso che

avrebbe combattuto il fumo con tutte le sue forze.

A 12 anni falsificò la prima giustificazione, bigiando la scuola. Ci prese

gusto e in trimestre fece solo 8 giorni di presenza tanto che alla fine

dell’anno scolastico il suo curriculum era il peggiore del college. George

Bush padre prima lo prese per il cravattino, gli fece passare una giornata

intera attaccato all’attaccapanni come uno spaventapasseri passandogli il

pranzo con una flebo, poi ricorse alle sue potenti conoscenze e, alla fine

dell’anno, George W. fu promosso con la media del 9.

I suoi compagni di scuola, nel vedere i quadri, dapprima rimasero sorpresi,

poi, scandalizzati dettero vita a uno dei più colossali saccheggi di quartiere

che la storia americana ricordi. Qualche anno dopo, il libretto di giustificazioni

contraffatto da George cadde in mano a dei falsari che ne approfittarono per

coniare biglietti da 100 dollari con l’effige e la firma di George Bush senior,

allora presidente USA, e l’America rischiò di rimanere vittima di una seria

inflazione.

A 16 anni chiese al suo migliore amico, più grande di 3 anni, cosa volesse

dire prostituta. Dato che George W. non capiva, dopo 3 ore e 50 minuti

di spiegazione, l’amico decise di portarlo in un postribolo di sua conoscenza.

Aspettarono 2 ore il loro turno. La maitresse ogni tanto si avvicinava spiegando

che ci doveva essere qualche problema perché la ragazza si era appartata

con un anziano signore qualche ora prima e ancora non era uscita.

I due cominciarono a innervosirsi. George W. ripassava mentalmente le

migliori gnocche del cinema di quegli anni ma dalle parti basse nessuna

reazione.

Cominciò a soffrire di attacchi di panico e a sudare copiosamente.

Dopo un’altra ora l’amico andò dalla maitresse e le disse che a quel punto

andava bene qualsiasi cosa, purchè si cominciasse. La maitresse ci pensò

un attimo poi si incollò al telefono. Tempo due minuti si presentò un tizio di

un metro e 50, con abbondante peluria sul petto, vestito da Tartan con tanto

di banana in mano; prese per mano senza pensarci due volte George W. e lo

portò nella sua stanza. Quello che successe lì dentro George W. non volle

raccontarlo a Silvio, ma, ormai in lacrime per il ricordo, non potette esimersi

dal raccontare il finale. George W. uscì dalla stanza massaggiandosi il culo

e farneticando ad ampi gesti, mentre l’altro non aveva più la banana e si

riassettava il vestito da Tartan.

Come se non bastasse sul pianerottolo.George W. si trovò all’improvviso

faccia a faccia George Bush senior che era in compagnia di una gnocca

stupenda, bionda, vestita per modo di dire di un bikini composto da tre

francobolli dell’indipendenza americana, due gambe da sballo, un seno

dell’ottava misura.

Appena lo vide, provò a chiedere:”Hi Papi, What are you doing he..” (“Ciao

Papà, che stai facendo q..”), ma non riuscì a finire la frase che cadde secco

tramortito per terra con due schiaffoni da rodeo.

Passò un giorno e una notte sull’attaccapanni lamentandosi per gli schiaffoni

e le emorroidi.

Ormai era chiaro: Silvio e George W.erano diventati amiconi arrivando a

raccontarsi i particolari più intimi della loro vita. Come quella volta che

George W. a 23 anni pensò di fare il fico con Jennifer, la ragazza del suo

migliore amico. La portò prima fuori a cena, poi a ballare guarda caso al

“G point”, un locale poco fuori città infine una scorazzata in auto in collina

a vedere il panorama della città come nei migliori film di Hollywood.

Ormai George W. era sicuro di avercela fatta, cominciò ad armeggiare intorno

ai botticini della camicetta di Jennifer, strappò gli ultimi due che non volevano

slacciarsi, e passò al reggiseno che, si sa, è un po’ come l’esame di laurea

per un playboy. Dopo 35 minuti George  W., le mani ormai spugnose, era

ancora lì a maledire in texano l’inventore del fermaglio tanto che Jennifer

decise di tirar fuori i due seni e offrirglieli dal balconcino, come si fa con i neonati.

George W. ringraziò timidamente e lasciò scivolare la mano sotto la gonna

finchè non incontrò le mutandine. Ancora un piccolo passo e avrebbe potuto

pronunziare le storiche parole di Armstrong:”Questo è un piccolo salto, ma un

grande passo per l’umanità!” Non fece in tempo a finire la frase che sentì uno

scatto e riuscì a malapena a soffocare un improperio in texano. Era scattata

la tagliola della cintura di castità che l’amico, evidentemente non fidandosi ne

di Jennifer ne delle sue frequentazioni,  aveva pensato bene di far indossare

alla ragazza.



Silvio e George W. si lasciarono con grandi pacche sulle spalle e sorrisi a

180 gradi per le troupe televisive di tutto il mondo, ripromettendosi di rivedersi

di lì a breve in un’altra rimpatriata. George W. propose a Silvio di portare le

mogli, eventualmente avrebbero potuto anche scambiarsele per una notte,

ma lì Silvio, guardando Veronica e la foto della signora Bush, fu un pochino

più reticente dato che, nel cambio, aveva solo da rimetterci. George W. fece

omaggio a Silvio di un pupazzetto di Charlie Brown, Silvio ricambiò commosso

con un peluche della Trudi e una bottiglia di limoncello e salì sull’aereo.

Purtroppo quello che l’uomo propone, Dio dispone. George W. aveva appena

prenotato il miglior tavolo da gioco a Las Vegas per il 15 settembre 2001 che,

l’11 settembre fu preso di peso dalle sue guardie del corpo e caricato sull’Air

Force One con moglie e pupazzi di peluche. A nulla valsero le sue proteste

e richieste di spiegazioni: era ormai convinto che la moglie volesse portarlo

dal suo dentista di Los Angeles per quella fastidiosa pulizia dal tartaro, che

gli venne accesa davanti una  televisione appena in tempo per vedere la

seconda torre crollare. Non osò chiedere nulla, si dette un violento cazzotto

sugli attributi per vedere se era sveglio ed esclamò solo “My God!!!”.

La vista di quel polverone, della gente che scappava, il vuoto lasciato dalle

Twin Towers gli dettero modo di scoprire il punto G del dolore, una fitta

lacerante alla bocca dello stomaco e un dolore diffuso pungente e diffuso

dietro le spalle, l’apoteosi dell’impotenza, lui, il Presidente della Nazione

più potente del mondo. Si sentì improvvisamente nudo come un verme,

iniziò a tremare come un fuscello sotto il peso di quello che stava accadendo

e preda di una rabbia senza fine. Prese il Trudi che gli aveva regalato

Silvio, si ficcò il pollice in bocca e gli occhi fissi nel vuoto ordinò di virare

e tornare a Washington. Ognuno di noi di fronte a fatti eccezionali ha

comportamenti parossistici: c’è chi salva decine di persone e alla fine

della giornata si scopre eroe, chi rifiuta la realtà e vorrebbe tornare

nel grembo materno, cercando il massimo della protezione rifiutando

l’accaduto. George W. rimase vittima di un paio di violente crisi di nervi

durante il viaggio di ritorno a Washington, pestò i piedi per terra provocando

all’aereo seri problemi di stabilità, cercò di rompere il carrello delle vivande

e di violentare un’hostess, ma stranamente, quando gli dissero che a provocare

quel casino era stato Bin Laden e le sue maestranze tornò improvvisamente

calmo.

Chiamò Condor Liza, riunì lo stato maggiore dell’esercito, della Marina e

dell’Aviazione, riunì l’ONU in seduta plenaria e annunciò “Attaccheremo l’Iraq

e annienteremo Saddam Hussein!” Un paio di membri del Consiglio di Sicurezza

provarono a dirgli che nulla provava una complicità tra Bin Laden e Saddam

Hussein, ma furono presi a calci in culo e una volta a Washington obbligati a

pagarsi un biglietto di sola andata per un soggiorno di due anni a Guantamano.

I giorni che seguirono furono convulsi, George W. partecipò alla

commemorazione delle vittime e alle cerimonie funebri e non potè quindi

dedicarsi ai suoi giochi preferiti con i peluche e i soldatini, in compenso

fece in tempo a vendere tutte le azioni della Enron prima del suo fallimento.

La cosa gli fece tornare un po’ di buonumore e con questo la lucidità sul da farsi.

Cominciò a fare mente locale su Osama Bin Laden. “Osama…Osama…” quel

nome non gli era nuovo…Ma sì, aveva 10 anni quando il padre lo portò in

vacanza in Arabia, nel Club Mediterranee di Gidda, sul Mar Rosso.

Vicini di ombrellone erano uno sceicco con dodici mogli e ventisette ragazzini

di età variabile tra i 6 mesi e i 19 anni. Uno di questi si chiamava Osama,

aveva la sua età e si divertiva a fare castelli di sabbia per poi distruggerli

tirandoci contro modellini di aeroplano. Quel gioco piaceva a George W.

che provò un paio di volte ad avvicinarsi amichevolmente al piccolo arabo;

ma alle sue richieste di partecipare al gioco veniva sempre sfanculato in

una lingua che non capiva e doveva tornare sotto l’ombrellone con le pive

nel sacco a giocare con gli stampini. Alla quinta richiesta, Osama, più per

metter fine a quella lagna che per convinzione lo accettò nel gioco, ma con

la promessa che sarebbe stato lui a capo delle operazioni e a dare gli ordini.

George W. fece buon viso a cattivo gioco e acconsentì di malavoglia.

Ben presto cominciarono a sorgere dei malumori, Osama tirò un modellino

di aeroplano verso George W. centrandolo nel pieno di un occhio, George W.

distrusse a calci due castelli costruiti da Osama, i due si accapigliarono,

scoppiò un parapiglia generale che vide coinvolte le due famiglie al completo

con i lattanti che, in attesa di diventare grandi, facevano enormi e maleodoranti

rigurgiti contro i componenti della famiglia Bush. Da quel giorno, per il resto

delle vacanze, le due famiglie si guardarono in cagnesco mormorando insulti,

quella in arabo, l’altra in texano; delle due la famiglia Bin Laden era

sicuramente la più agguerrita, al punto di occupare tutte le ombre degli

ombrelloni nel raggio di 500 metri quadrati, ombra Bush inclusa.

Quella vacanza si concluse in un incubo: tutti i Bush tornarono negli USA

rossi come gamberi con ustioni sulla pelle del secondo grado, George W.

oltre alle ustioni rimediò un colpo di calore che lo fece rimanere in coma

per due giorni e durante il coma vide la Madonna, Ali Babà con 39 ladroni

e lui lì a fare il quarantesimo, il feroce Saladino e Gary Cooper. Quando si

risvegliò dal coma, il padre, sollevato, gli fece una carezza su un’ustione

e dopo aver cacciato un urlo sovrumano ripiombò in un sonno profondo.  

Osama continuò ancora per qualche anno a frequentare con la famiglia il

Club Mediterranee di Gidda; ormai i Bin Laden gestivano in proprio una

porzione di spiaggia grande quanto Lampedusa e qualche volta subaffittavano

gli ombrelloni a famiglie americane che, nonostante nelle ore canicolari non

si muovessero dall’ombra e facessero corpo unico con l’ombrellone, tornavano

negli Usa alla fine della vacanza con ustioni di quarto grado. Era successo

che Osama aveva ideato un congegno di specchi multidirezionale che dalle

10,30 della mattina alle 6 del pomeriggio era puntato ininterrottamente sui

malcapitati; come non bastasse, a turno ognuna delle dodici mogli dello sceicco

cominciava a truccarsi orientando un piccolo specchio ovale, guarda caso,

sempre verso la stessa famiglia. I primi due giorni gli americani tornavano

in albergo euforici, complimentandosi a vicenda per la stupenda abbronzatura,

poi qualcuno cominciò a squamarsi, comparirono le prime piaghe, dopo

qualche giorno i poveretti erano fasciati come mummie in preda a spaventosi

decupiti, ma per non sprecare i giorni della sospirata vacanza e per non

perdere la priorità acquisita sull’ombrellone continuavano a timbrare il

cartellino dello stabilimento.

Osama già da allora,  dimostrava una particolare predisposizione per le armi,

soprattutto non si separava mai da un modello di mitra Kalashnikov a

piombini, regalo della prima masturbazione. In Arabia infatti si usa

considerare la prima masturbazione come una specie di perdita della

verginità e si usa fare un regalo, naturalmente rapportato alle possibilità

della famiglia. Tenete presente che la prima masturbazione di può fare

solo entro i 18 anni, cioè prima della maggiore età, e in quel caso i ragazzi

vengono premiati. Diversamente,dopo i 18 anni sesso va bene, ma solo

con le proprie mogli che comunque possono essere anche centinaia, e

niente maiale.

Tornando a bomba, e mai termine fu più appropriato, Osama si portava

ovunque il suo Kalashnikov, anche quando andava a dormire, appoggiato

al comodino, così come i bambini occidentali si portano a letto un orsacchiotto.

Di giorno invece si divertiva a impallinare il roseo culetto dei fratellini all’uscita

dal bagno o il padre sul più bello di un amplesso. Questo fa capire come

Osama Bin Laden non abbia avuto mai le idee molto chiare sul punto G;

l’altro è che difficilmente troverete la G nell’alfabeto musulmano, quindi

per loro il problema non si pone neanche.

A un certo punto di Osama si persero le tracce finchè non ricompare

nella cronaca nera di un quotidiano arabo come principale indiziato

della morte di 14 fratelli e 7 tra madre e matrigne. Era successo che

Osama aveva acquistato uno scuola-bus di seconda mano e aveva

convinto i familiari a festeggiare facendo un giro lungo la costa. Fatto

qualche chilometro aveva accostato il pulmino, era sceso e aveva

comunicato a tutti di aver bucato. I fratelli e le donne lo guardarono

da sotto i turbanti e, sebbene all’interno la temperature rasentasse i

55 gradi, continuarono le loro discussioni come se niente fosse, gli

uomini a parlare del campionato arabo scommettendo su Al Tottul

capocannoniere, le donne dell’ultimo concerto di Al Baglion.

Incazzato come una bestia Osama, aprì il cofano, ci infilò dentro 20 chili

di tritolo che portava sempre con se, accese la miccia e si allontanò.

Qualche istante dopo al posto dello scuola-bus c’era un cratere profondo

8 metri e un penetrante odore di arrosto. Riuscì a far perdere le proprie tracce.

Fu segnalato a Parigi a imbrattare tele a Montmartre, a Roma a vendere

collanine di plastica e, quando se la passava male a denaro, a pulire i vetri

prendendosi le contumelie dei proprietari delle auto, imbufaliti per l’ingorgo,

in Cecenia a montare infissi.

Insomma la frustrazione montava e la rabbia anche.

Mise insieme un gruppo di musulmani incazzati come lui chiamandolo Al Qaeda

e, dopo aver preteso dal padre un bonifico di qualche milione di dollari per

il servizio compiuto qualche anno prima al pulmino, si arrampicò sulle

impervie montagne dell’Afganistan. Da lì partirono gli ordini per l’11

settembre e per altri sanguinosi attentati.



Col tempo Al Qaeda è diventata potentissima e si è ramificata in tutto

il mondo, anche in quello occidentale, creando cellule di persone pronte

a tutto e introvabili come la famosa Primula Rossa. Conscio che sulla sua

testa ci fosse una taglia miliardaria posta dal governo Usa , Osama ha

incaricato le cellule di trovare una dozzina di individui che gli somigliassero

e, dall’11 settembre 2001, per quattro volte ha suggerito all’FBI dove

poterne trovare uno. Il meccanismo si è rivelato ingegnoso. Quando il

cassiere di Al Qaeda telefonava avvertendo che il conto era prossimo

al rosso, Osama prendeva il cellulare e, in perfetto slang texano, comunicava

al capo dell’FBI dove poteva trovarsi Bin Laden.  Immediatamente scattava

l’allarme rosso su tutto il territorio americano, nella città in questione venivano

chiusi i negozi, le chiese e i pip-shops, indetto il coprifuoco, cecchini con

fucili ad alta precisione venivano piazzati sui tetti del quartiere interessato

e in ogni angolo di isolato, le Giubbe rosse a cavallo fatte accorrere in prestito

dal Canada, venivano mandate a pattugliare con noncuranza le strade.

Ormai il presunto Osama Bin Laden non poteva più scappare e infatti

veniva arrestato e pestato di santa ragione. Quando il malcapitato gonfio

di botte e nero di lividi cercava di farfugliare con parole incomprensibili la

propria innocenza, l’FBI acquisiva la certezza che quello fosse veramente

Osama Bin Laden.

“E’ lui, parla anche arabo. C’è bisogno dell’ interprete” comunicava il Capo

alla Sede Centrale dopo aver constatato che la barba non era posticcia.

Immediatamente veniva dato ordine al Tesoro americano di bonificare la

taglia promessa su un conto di una società di produzione di noccioline

americane alle Bahamas.

Solo dopo qualche giorno, quando passato il gonfiore e tutto incerottato, il

presunto Osama era in grado di inanellare una serie di contumelie in perfetto

slang newyorchese cominciava a serpeggiare negli uffici dell’FBI il sospetto

di aver preso la persona sbagliata e con tante scuse e un calcio in culo veniva

rispedito ai patri lidi.

Con questo stratagemma, Bin Laden non si è mai fatto mancare nulla sulle

montagne di Kabul, dal caviale alla parabolica. Quello che è incomprensibile

è come mai l’FBI non abbia ancora cambiato la scaletta programmata e cioè

prima verificare l’identità del prigioniero e poi fare il bonifico della taglia.

Ogni tanto, esattamente quando dalle statistiche risulta che il consumo dei

tranquillanti si sta abbassando e le case farmaceutiche minacciano di chiudere

bottega, il governo Usa riporta l’allarme al livello arancione pronosticando

un prossimo attentato da parte delle cosiddette “cellule dormienti” di Al Qaeda.

Così ritorna lo stress, nessuno prende più l’ascensore e la mattina le facciate

dei grattaceli sono piene di impiegati che si arrampicano come l’Uomo Ragno

ed entrano in ufficio dalla finestra, il consumo dei tranquillanti riprende a salire.

Ma cosa sono le cellule dormienti? Allora, è bene sapere che ogni cellula è

composta di almeno sei uomini, tutti musulmani. Ma questi, essendo prima

uomini che musulmani, costretti come sono a dormire finchè non squilla il

cellulare con qualsivoglia ordine, ogni tanto decidono autonomamente di

svegliarsi e andare a cena fuori, magari palpeggiando qualche signorina

compiacente tra fiumi di birra e vodka. Le restrizioni della religione

 islamica sono drastiche, soprattutto per quanto riguarda la carne di

maiale, così tutti ripiegano sui fagioli, una steak di manzo, patatine

fritte e purea. Un cocktail micidiale, soprattutto quando si incontrano

birra e fagioli con l’effetto moltiplicato dal lungo digiuno. La mattina

dopo la stanza della cellula è satura del venefico gas culino, di cui

solo gli uomini di Al Qaeda hanno l’antidoto. Se l’allarme arancione

era campato per aria la cellula neanche si sveglia, continua il letargo

forte del siero preso in precedenza e, al massimo, gli uomini si sveglieranno

con un forte cerchio alla testa e un po’ di nausea.

Se viceversa effettivamente l’allarme era giustificato, tutti si svegliano

alle 6, nessuno va al bagno e si presentano alla stazione della metropolitana

rossi come gamberi per lo sforzo di trattenersi ma sicuri di non essere

riconosciuti come arabi. Una volta uno di loro fu persino scambiato per

irlandese per via del suo colorito paonazzo.

Una volta sparpagliatisi nei vagoni zeppi di gente che si reca al lavoro,

si lasciano andare e si liberano del potentissimo gas. Pochi secondi e

intorno a loro non c’è più anima viva.



Non potendo arrivare a in tempi brevi a Bin Laden, Bush cominciò a

prendere di petto Saddam Hussein. “Ha gli arsenali pieni come uova

di armi chimiche e noi dobbiamo combatterlo perché solo così sconfiggeremo

il terrorismo”.

Gli Americani, che hanno sempre un gran bisogno di frasi ad effetto

applaudivano e tornavano a casa tranquilli tanto che Bush continuava

a salire nei sondaggi di gradimento per le imminenti elezioni presidenziali.

In realtà George W., che, ricordiamo, non ha mai brillato per ingegno,

pensava di fare un’autentica passeggiata in Iraq impadronendosi senza

troppo sforzo dei pozzi di petrolio e poi calare questo punto pesante al

momento del voto sulla presidenza. Cappello alla Ringo in testa, non

riusciva a fare discorso senza usare toni minacciosi verso Saddam: una

volta, al ristorante, fu colto dal cameriere soprapensiero e gli ordinò un

piatto di “costolette alla Saddam”, sotto Natale andò a fare shopping di

regali e gli parve di riconoscere il leader iracheno sotto le mentite spoglie

di un Babbo Natale. Scoppiò un parapiglia sedato a stento dagli uomini

della sicurezza e il Babbo Natale gli stracciò sotto il naso la letterina che

aveva ricevuto da George W. con la richiesta di 27 peluche differenti.

Insomma, Saddam Hussein era in cima a tutti i suoi pensieri, fu visto più

volte dalla moglie alzarsi nottetempo e passeggiare per le stanze della

Casa Bianca bisbigliando “Gli faccio un culo così…” e amenità simili,

cominciò a mangiarsi le unghie e a soffrire di incontinenza. Sempre

preda dei suoi pensieri faceva gesti inconsulti, del tipo versare il parmigiano

nel bicchiere e condire la pasta con il “Novello” finchè non si decise a

convocare l’ONU in seduta plenaria per dare una parvenza di legalità

a quello che aveva deciso da tempo.

Con la fida Condor Liza a fianco ordinò di passare al setaccio l’Iraq,

trovare le armi chimiche che sicuramente possedeva, ordinare a Saddam

di distruggerle o consegnarle e tornare con quanti più fusti di benzina

possibile. Poi telefonò ai governi alleati per raccogliere le adesioni alla futura

manovra di forza: Blair neanche alzò il ricevitore e rispose:”OK”, Berlusconi

appena ricevette la richiesta di George W. ebbe un attimo di titubanza

durante il quale gli venne ricordata la solita storia del sacrificio e l’aiuto

degli Americani durante la seconda guerra mondiale che richiedeva

riconoscenza, si mise sull’attenti e proclamò:”Siamo con voi!”, Aznar, in

vacanza a Marbella gonfiò la ruota come un pavone e gli mandò una foto

col cellulare con la dedica “Grazie di esistere!”, la Germania nicchiò e alla

fine concesse a malavoglia lo spazio aereo per il decollo delle truppe, la Francia

lo mandò in coro a quel paese riunita in seduta plenaria sui Champs Elisee. La

Turchia provò a defilarsi, ma appena le venne ricordato il debito in dollari

fece buon viso a cattivo giocò e promise il suo appoggio.

Quando gli ispettori ONU bussarono alla porta di Saddam Hussein lo

trovarono in pigiama a fare colazione intingendo bastoncini Findus nel latte.

Cortesissimo e sorridente il leader li invitò a partecipare, ma declinarono

all’unisono soffocando un conato di vomito. Saddam si fece la barba,

indossò la sua logora divisa da generale e scusandosi per averli fatti

aspettare si mise a disposizione. Gli ispettori gli controllarono le orecchie,

la lingua, ficcarono a turno il naso sotto le ascelle, un ispettore novizio,

ancora in prova, fu incaricato di smucinare nelle parti intime poi tutti insieme

verificarono il grado di allarme registrato.

Telefonarono subito a Bush:”Finora nessuna presenza di armi chimiche

accertata”. “Cercate meglio, DEVONO esserci!” fu la risposta dall’altra parte

del filo. Saddam si era sottoposto di ottimo umore a quella prima fase

dell’ispezione, aveva riso con gusto per il solletico, aveva intrattenutogli

ispettori con barzellette che, raccontate nella sua lingua, nessuno aveva

capito ma che furono tutte chiuse da una melliflua risata generale.

Si passò allora alle domande dirette:”Lei, Saddam, ha mai fatto uso

di armi chimiche?”. Sempre gentile, rispose:”Sì, forse una volta, in un

villaggio curdo, ma credevo fosse fertilizzante…Avevo quelle che mi

aveva dato l’America da usare in Iran, ma erano scadute e le ho gettate

negli appositi contenitori…”. Sempre più imbarazzati, gli ispettori decisero

di andare a buttare un’occhiata in giro, ma senza risultato. Solo qualche

mortaretto e dei fumogeni di una ditta di Napoli. Se non fosse stato per i

giacimenti di petrolio presenti ovunque e la presenza di un’infinità di capre

in luogo delle mucche, l’Iraq poteva essere scambiato per la Svizzera.

 Tornati in America, relazionarono Bush sull’ispezione, ma quando

George W. venne a sapere che le ricerche di armi chimiche erano state

infruttuose si incazzò come una bestia e spedì tutti a meditare a Guantamano.

Poi radunò l’ONU e proclamò con fare saccente:”Le ispezioni sono state

infruttuose perché Saddam Hussein, peste lo colga, ha saputo nascondere

molto bene le armi chimiche, ma,  believe me (fidatevi)- e lo disse con la

mano sul cuore e facendo forti cenni di assenso con la testa- esse ci sono

e l’Iraq è pronto ad usarle! Da questo momento, siamo in guerra e lo

saremo finchè non avremo liberato l’Iraq da quel tiranno!”.

Saddam fu svegliato di soprassalto dalla prima esplosione su Bagdad,

provò a riprendere sonno infilandola testa sotto il cuscino, ma seguirono

altre esplosioni e decise di alzarsi e andare a vedere cosa succedeva.

Era buio, e in successione riusciva a vedere solo qualche bagliore, ora

più vicino, ora un po’ più distante. Decise di sintonizzarsi sulla televisione

italiana, trovò Raiuno e ascoltò sbadigliando le parole di Bruno Vespa:

parlava di guerra, di aerei USA che bombardavano e ogni tanto si voltava

verso un grande schermo dove si vedeva una giornalista, Lilli Gruber,

che parlava in modo concitato e ogni tanto mollava un poderoso calcio

nel sedere a qualcuno della sua troupe, smortacciando perché veniva

ripreso per dritto e non di traverso come gradiva. Aveva capito che c’era

una guerra, ma dove? Decise di inforcare gli occhiali e alzare il volume

per capirci meglio, ma dalla stanza affianco una delle mogli cominciò a

battere sul muro con una ciabatta urlando:”Insomma, è tardi, vuoi abbassare!!!”

Decise di tornarsene a letto e, per essere sicuro di dormire, ingoiò dodici

pasticche da un flaconcino. Il sonno non venne, ma in compenso cominciò

ad avvertire dei movimenti inguinali sempre più violenti, vere e proprie

doglie, si alzò nuovamente dal letto e corse al bagno appena in tempo…

La funzione si ripetè altre dieci volte, sempre accompagnata da violenti

strizzoni allo stomaco, andò in cucina a controllare la data di scadenza

dei bastoncini Findus, stava lì che cercava di capire il perché di quel

malessere che una violenta esplosione si confuse con i rumori che gli

uscivano dai pantaloni e provocò la caduta di un’ala del palazzo:”Cazzo,

cosa ho combinato!” pensò.

Quando la mattina dopo lesse i giornali, non riuscì a credere ai suoi

occhi:gli Americani avevano bombardato Bagdad e lui non si era accorto

di nulla…Cominciò a rimestare nella coscienza se per caso avesse fatto

qualcosa di veramente grave: sì aveva riciclato barili di benzina normale

spacciandola per super senza piombo, aveva fumato il sigaro in presenza

degli ispettori ONU, aveva fatto mettere miccette puzzolenti nella cassetta

delle lettere di alcune Ambasciate occidentali, ma per quanti sforzi facesse

non riusciva a trovare nulla che potesse giustificare un intervento armato.

Accese la televisione e si sintonizzò su Aljazeera; i carri armati americani

erano a 100 km da Bagdad e alcuni soldati venivano ripresi mentre si facevano

la doccia con il petrolio di un giacimento. Capì che la situazione era grave,

indossò la migliore sahariana , chiamò a raccolta mogli e nipoti e annunciò:

”Vado a prendere i sigari”. Uscì e si confuse tra la folla.

Lo trovarono gli Americani dell’Intelligence, qualche mese dopo,

in seguito ad una segnalazione comparsa sul seguitissimo programma

televisivo italiano “Chi l’ha visto?”; una voce da donna che parlava

un italiano perfetto aveva segnalato un tizio molto simile all’identikit

fornito dall’FBI frugare nei cassonetti dell’immondizia vicino Bagdad.

Aveva preso l’autobus con lui, sempre tenendolo d’occhio, ma ne aveva

perso le tracce quando,dopo un paio di fermate erano saliti i controllori.

Evidentemente il tizio non aveva fatto il biglietto perché scese dall’autobus

al volo e lo vide dirigersi verso un casolare alla periferia della città.

“Signora, lei è in grado di riconoscere quel casolare?”, domandò la

conduttrice. “Assolutamente sì” fu la risposta.

Tempo 12 minuti il casolare in questione era stato individuato e circondato,

squadre d’assalto speciali si erano dislocate tutte intorno aspettando solo

il comando per fare irruzione, George W. Bush stesso comandava l’operazione

ciucciando nervosamente un lecca-lecca. Al via le truppe speciali, al grido

di attacco degli indiani d’America, fecero irruzione. Saddam Hussein con

la barba incolta e la sahariana ormai lisa non fece neanche in tempo a

chiedere se avevano mezzo dollaro che si trovò imbavagliato e legato

come un salame, con una cinquantina di mitra puntati contro e un tizio

che si divertiva a staccargli i capelli e i peli della barba per le prove del DNA.

Gli interrogatori furono un supplizio. Gli venne infilato un limone in bocca e

un ramoscello di rosmarino lì dove ci si siede e gli fu ordinato di sillabare

grugnendo in modo chiaro il proprio nome,  fu costretto a recitare il Corano

saltando su una gamba sola, dovette guardare per tre giorni e tre notti di

fila le VHS con le registrazioni di “Porta a porta” e imparare a memoria la

mappa dei nei di Bruno Vespa. Fu una liberazione quando il governo degli

Stati Uniti ne ordinò l’estradizione e lo impacchettò con destinazione

Guantanamo, cella di massimo isolamento. Ma durò poco: una sera

Saddam chiamò il custode di turno e quando quello fu nella cella gli

intimò con aria misteriosa:”Chiudi gli occhi e apri la bocca”; l’altro obbedì.

Quando riaprì gli occhi, dopo una manciata di secondi, Saddam Hussein

non c’era più, guardò sotto il letto, dietro la porta, niente. Al posto di guardia

gli dissero che era uscito solo un vecchio dalla barba lunga che aveva

detto di chiamarsi Abate Faria.



Gli anni che seguirono non furono facili né per gli iracheni, né per le

forze occupanti. Le diverse etnie si sparavano tra loro memori di un

passato di odio e di rancori e tutte insieme sparavano contro le forze

della coalizione. Ci furono villaggi di contadini rasi al suolo e pozzi

petroliferi incendiati che continuarono a bruciare per mesi, finchè non

venne finalmente formato un governo composto per metà da iracheni

e per metà da americani che avrebbero dovuto guidare i colleghi sulla

strada della democrazia in una specie di scuola guida politica.

Come per incanto le violenze cessarono e il popolo iracheno si dedicò

finalmente alla ricostruzione. “…e che siamo, più stupidi degli altri?”,

“Gli facciamo vedere noi cosa siamo capaci di fare…”si sentiva mormorare

per le strade. E tutti giù a lavorare e sudare come bestie.

Furono chiamati i migliori ingegneri e architetti, profumatamente pagati

in petroldollari, fu istituito un Ufficio di collocamento con file veloci per

la nuova mano d’opera, la Borsa di Bagdad si collocò per due anni

consecutivi ai vertici della classifica mondiale con performance che

sfioravano il 400 per cento, le donne abbandonarono il velo e cominciarono

a vedersi le prime minigonne.

Era l’ultimo giorno di Carnevale del 2012 e Bagdad era sfavillante di

colori, musica,insegne luminose, night club, sale da gioco, club privee

e locali da spogliarello. La notte era diventata piccola per Bagdad da

qualche anno a quella parte; di giorno il traffico si manteneva caotico

ma era ben supportato dalle due linee di metropolitana che in dieci minuti

congiungevano i quattro capi della città. Il commercio era rifiorito trainato

dalle punte forti del Paese: il petrolio e l’agricoltura.

L’Iraq si era preso tutti i benefici dell’occidentalizzazione, al punto di

trasformare la Capitale in una nuova Las Vegas; con il benessere erano

arrivate anche le piccole seccature di cui una volta erano vittima i Paesi

più industrializzati. Ora non era raro vedere ai semafori qualche

Occidentale avvicinarsi alle macchine in sosta per pulire il vetro,

gommoni stracarichi di italiani, spagnoli e tedeschi arrivavano nottetempo

ad approdare sulle rive del Mar Rosso e scaricavano donne e uomini

infreddoliti ma carichi di speranze, gli americani si erano radunati in un

ghetto alla periferia della città e, dal tramonto in poi, era sconsigliato

avventurarcisi senza una guida o con troppi soldi addosso.

Ai semafori torme di svizzeri,  francesi e italiani specializzati in

Odontoiatria si bussavano ai finestrini delle potenti auto irachene

Armati di spazzolino da denti e dentifricio, pronti a offrire i loro umili

Servigi per pochi centesimi. Mentre nei lussuosi appartamenti ci

si preparava per l’imminente pigiama party, lungo le strade del centro

i clochard europei e americani si aggiustavano i cartoni per la

notte.

Ma queste erano inezie facilmente tollerate dagli iracheni che si limitavano

a scrollare le spalle e a continuare per la loro strada. Al calar della sera,

dopo l’ora della preghiera e una rapida cena, instancabili, eccoli di nuovo

in strada a organizzare festose gimkane su lussuose fuoriserie per approdare

il prima possibile in un locale di strip-tease, in una discoteca, in una sala da

gioco, per non perdersi neanche un attimo di divertimento.

Il tutto in una fantasmagoria di luci, musica, grattacieli illuminati a giorno

e belle donne.

George W. Bush aveva deciso da tempo di festeggiare il martedì grasso

proprio a Bagdad e per farlo aveva invitato tutti gli amici di un tempo in

una festa mascherata nel locale più  esclusivo di Bagdad: il “G Point”. 

Situato nel cuore della Bagdad notturna, questo locale era frutto dell’inventiva

di un architetto e un ingegnere giapponesi; da lontano, per maestosità e

forma sembrava il Colosseo senza finestre, avvicinandosi si potevano

apprezzare i marmi Rosa del Portogallo di cui era rivestito tutto l’esterno

e lo stile sinuoso, sul genere di alcune sculture del Gaudì. Vi si accedeva

attraverso un enorme porta azionata da cellule fotoelettrica capaci di

captare la presenza umana da un metro di distanza, ma questo non

bastava perché si aprisse; percepita la presenza, si apriva uno sportello

laterale dove si doveva infilare la mano come nella Bocca della Verità

e rispondere perfettamente a una domanda posta da un nastro registrato.

Le domande erano banali in modo da permettere l’accesso a chiunque

 avesse completato gli studi elementari.

Una volta completate queste formalità era possibile l’accesso all’interno.

Una volta abituati gli occhi all’oscurità e alle luci psichedeliche,

l’avventore rimaneva letteralmente a bocca aperta: al centro una

pedana rotonda con diametro di cento metri e pavimento in cristallo

temperato era destinata al ballo, tutto intorno poltrone e divanetti in

pelle disposti in modo tale da formare tanti comodi salottini, da un punto

del muro partiva una scala ad ampi gradoni che, sviluppandosi a gironi

concentrici stile Guggenheim per tutta l’altezza della parete portava fino

al terzo e ultimo piano. Lungo la scala slot machine, flipper, videogiochi

di ogni genere erano l’alternativa per chi preferiva il gioco al ballo. Da

ogni piano  si accedeva in un ulteriore locale insonorizzato dove si potevano

ascoltare altri generi di musica, da quella anni 60-70, al piano bar, al jazz

e via dicendo.

I muri erano tappezzati di manifesti cinematografici dei più bei film occidentali

dal tempo dei fratelli Lumiere: dal genere brillante del piano terra, si passava

al drammatico, poi al western, all’horror, fino al genere di fantascienza

dell’ultimo piano. Non mancava un manifesto rarissimo del celebre film

“La corazzata Potemkin”.

Dal soffitto una palla enorme composta da lamelle prismatiche

irradiava in ogni dove le luci a intermittenza dei faretti colorati. Da questa

palla quattro funi assicuravano una piattaforma immediatamente sottostante

ma a trenta metri dal suolo, anche questa in cristallo temperato; l’accesso

era possibile direttamente da terra per mezzo di alcune liane. Qui i più

coraggiosi o scriteriati potevano scatenarsi a ballare provando l’ebbrezza

di essere sospesi nel vuoto e il brivido freddo del pericolo dato che non c’era

alcuna balaustra a protezione di un’eventuale caduta. Ecco il motivo di un

plotone di ambulanze ferme in pianta stabile davanti al locale.

George W. arrivò al G Point verso le 21, in tempo per fare gli onori da casa.

Aveva affittato direttamente dalla NASA la tuta spaziale con cui Neil

Armstrong aveva fatto i primi passi sulla superficie lunare mentre sua

moglie Laura si era travestita da coniglietta di Playboy, con tanto di

pon pon  sul sedere e orecchie a punta, senza tuttavia migliorare il risultato

finale. Dopo averla guardata un attimo George W. aumentò per quanto

possibile l’ampiezza della falcata e riuscì a tenerla a un paio di metri di

distanza facendo finta di non conoscerla. Le scarpe sembrava fossero

inchiodate al terreno, ma con uno sforzo di volontà ciclopico George W.

riuscì a inanellare un passo dopo l’altro fino all’ingresso mantenendo il

vantaggio. Sarà stata la fatica per arrancare così bardato, fatto è che

quando si fermò per assolvere le formalità dell’ingresso, nonostante la

temperatura si aggirasse intorno ai –5°,  il presidente degli Usa era sudato

come un maiale e aveva cominciato a roteare le palle degli occhi per un

imminente collasso. Fortunatamente l’equipaggiamento era dotato di una

bombola esterna contenente 20 litri di acqua e collegata alla bocca con

un tubicino, appositamente studiata per evitare casi di disidratazione.

Bush trangugiò avidamente 10 litri d’acqua e si sentì meglio. Viceversa

la signora Bush, vestita solo di un bikini, dei pon pon e di una calzamaglia

elasticizzata color carne per mimetizzare i rotoli di ciccia cadente, per il

freddo non riusciva a tenere ferma la dentiera che batteva a ritmi non

sincronizzati con la mascella: questa infatti non riusciva a tenere il tempo

della protesi e l’effetto era quello di uno dei volti raffigurati nella “Guernica” di

Picasso. Per il troppo muoversi la dentiera finì per allentarsi e ad un contrarsi

più violento schizzò fuori proprio nel momento in cui il marito aveva infilato

la mano nella “Bocca della verità” per rispondere alla domanda d’ingresso.

Con un rimbalzo finì proprio nella finestrella e dopo un istante George W.

si riprese la mano con un urlo. Serrata sulle dita c’era la dentiera che forse

per l’urto, forse per il freddo che ne aveva gelato i meccanismi, si era

bloccata recidendogli due falangi. Per sdrammatizzare la moglie gli gettò

sullo scafandro una manciata di coriandoli e, come Dio volle, riuscirono

ad entrare.

Cominciarono ad arrivare alla spicciolata i primi invitati. Tony Blair travestito

da cagnolino dell’Eni entrò camminando carponi a quattro zampe con

due protesi che azionava con la bocca in perfetta sincronia con il movimento

del resto del corpo. La coda l’aveva amputata di netto a uno dei levrieri

della Regina che vedendosi presentare il cane prediletto conciato in

quel modo aveva subito dato la colpa a Camilla Parker depennandola

per l’ennesima volta dal testamento; ecco entrare a spada sguainata la

maschera di Zorro con dentro Aznar: lo spagnolo si è così calato nella

parte che appena entrato disegna una zeta su due rarissimi manifesti

cinematografici per poi deporre la spada su un pon pon di Laura Bush

e passare ai saluti. Arrivano Putin in tenuta da panda e Sylvester Stallone

in un originale travestimento da Rambo, arrivano gli impiegati della Enron

tutti con lo stesso travestimento da accattoni ma vengono subito ricacciati

fuori dalle guardie del corpo perché si scopre che la loro non è una maschera

ma il vestito di tutti i giorni. Arrivano attori di Hollywood e premi Nobel, stelline

della carta patinata ed esponenti del Clero, arriva Rocco Siffredi in costume

adamitico seguito a ruota da Condor Liza Rise travestita da avvoltoio.

Solo verso metà serata, giustificati per un improvviso sciopero della

compagnia aerea Alitalia, arrivano Berlusconi, Galliani, Confalonieri,

Emilio Fede, Bossi e Fini. 

Berlusconi si era fatto confezionare da Ermenegildo Zegna per l’occasione

un costume completamente azzurro da Puffo, in onore del suo partito

“Forza Italia”, e guidava il plotone degli italiani seguito da Bossi in completino

verde da Robin Hood con tanto arco e frecce e Fini travestito da mummia

egizia, tutto avvolto nei bendaggi come un salame e solo il viso scoperto.

Galliani si celava sotto le mentite spoglie di Diabolik, in tutina nera e incedere

da ballerina della scala mentre Gonfalonieri lo affiancava vestito da

Winni the Pooh e ogni tanto attingeva enormi cucchiaiate da un vaso di

miele che aveva in mano. Tutto intorno uno sciame di perfide api dalla

puntura micidiale cercava di partecipare al banchetto. Emilio Fede aveva

dato il meglio di sé per trasformarsi in Jolly delle carte Modiano e a ogni

passo tintinnava come un lampadario di Murano per via dei campanellini

che gli adornavano il costume. Con un lieve ritardo sugli altri arriva anche

il drappello della stampa composto da Bruno Vespa, Mario Tozzi e Tana

De Zulueta dell’Economist. I tre sono stati attardati all’ingresso in quanto

le cellule fotoelettriche non riconoscevano Tana De Zulueta (la traduzione

letterale del nome è Nido di Bertuccia) come essere umano e poi perché

la giornalista si era presentata in borghese. Viceversa Bruno Vespa era

travestito da E.T., non appena il nugolo di api lo vide, scambiandolo per

un affine, si spostò in sciame verso di lui e in un batter d’occhio ricoprì

festoso ogni punto del viso lasciato libero dai nei. Infastidito Vespa cominciò

a smanacciare a destra e a manca colpendo con due poderosi manrovesci

il povero Tozzi, conciato per l’occasione da vispa Teresa e inviato da Gaia

per studiare gli effetti della musica a palla sull’inquinamento ambientale.

Invece del cestello Tozzi aveva portato con sé l’inseparabile piccozza che

non si capiva bene a cosa potesse servirgli per quel genere di inchiesta.

Ne fece comunque uso appropriato calandola un paio di volte sui denti di

Bruno Vespa in cambio delle percosse e in breve l’ordine fu ristabilito.

Ormai l’ambiente si era riscaldato, la festa poteva dirsi a piena regola iniziata,

le piste da ballo erano invase dagli invitati che si scalmanavano al suono

dei ritmi più ossessivi, coriandoli e cotillons formavano la cornice adeguata.

Galvanizzato dalla riuscita del party e da qualche bicchierino di troppo,

George W. Bush si era calato completamente nella parte dell’astronauta

e con voce nasale chiamava a raccolta ora Berlusconi ora Blair per un

imminente atterraggio su Saturno: “I want you!!” “I want you” (“Voglio te”

“Voglio te”) motteggiava indicando ora l’uno ora l’altro alla maniera dello

Zio Sam. Nel frastuono della musica Blair equivocò il gesto ed era ormai

rassegnato a farsi sodomizzare quando Laura Bush, alzatasi per raggiungere

la pista da ballo, gli pestò involontariamente la coda.  Blair emise un guaito

rabbioso e l’addentò su un pon-pon cominciando poi a sputare peli

microscopici misti a catarro; finì per centrare Galliani in un occhio e

Bruno Vespa su un brufolo. Schifato, lo sputo tornò indietro come un

boomerang e finì la sua corsa sul naso azzurro di Berlusconi. Silvio

nel frattempo era collegato per un’edizione straordinaria della RAI e

delle TV Mediaset a reti unificate e, ricomposto il lifting, fece un

importante messaggio elettorale alla nazione infischiandosene della

par condicio e approfittando del fatto che Bossi si era stava cimentando

con Condor Liza Rise in un ballo scatenato sulla piattaforma in alto del

locale e Fini aveva chiesto a Confalonieri di accompagnarlo alla toilette.

Galliani, nella vita Presidente del Milan, comunicò di aver chiuso un

importante affare di calcio mercato acquistando Pelè. Il calciatore

sarebbe stato sottoposto l’indomani alle visite mediche del geriatra

poi sarebbe passato in Sede a firmare un miliardario contratto quinquennale.

Purtroppo tutti si erano distratti perché in quel momento Emilio Fede,

impegnato in una partita accesissima con una slot machine, aveva

lanciato un grido sovrumano; era successo che, dopo aver dilapidato

un patrimonio e chiesto un prestito  alla cassa, era riuscito a centrare

la più difficile combinazione dell’infernale macchinetta: tre donne nude

allineate insieme. Era stato inondato di monetine che, montando come

sabbie mobili, lo stavano sommergendo fino ad impedirgli di respirare.

Immediatamente accorsero Tozzi e Vespa. Tozzi riuscì ad aprirsi un varco

a colpi di piccozza e a riprendere peri capelli il malcapitato mentre Vespa

preparava un’edizione speciale di “Porta a Porta” sulla pericolosità del

gioco d’azzardo. Fede non ringraziò neppure perché gli era sembrato

di vedere Tozzi infilare una manciata di monetine nel costume da

vispa Teresa e, appena fuori dal groviglio, prese il giornalista e lo

rivoltò a testa in giù come un capretto. Dalle tasche uscirono un

cacciavite e dodici chiavi inglesi, ma di soldi neanche l’ombra.

Nel frattempo Bossi, fradicio di sudore come uno straccio, aveva messo

un piede in fallo e pencolava dalla piattaforma bestemmiando in

mantovano mentre Condor Liza imperterrita continuava a dimenarsi

come una cubista al suono di musica afro-cubana. Il leader leghista

riuscì a togliere una freccia dalla faretra del suo costume da Robin

Hood, imbracciare l’arco e scoccarla centrandola nel fondo schiena:

finalmente lei si accorse dell’accaduto, cercò con lo sguardo il suo

compagno d’avventura che si dimenava cercando di guadagnare una

posizione più tranquilla, e gli assestò un poderoso calcio che gli sconquassò

il setto nasale. Nonostante tutto, Bossi riuscì a riguadagnare la piattaforma

e, sanguinando copiosamente dal naso, giurò lotta eterna agli extracomunitari.

Non andò meglio al collega Fini che si era appartato nella toilette con Fedele

Confalonieri. Bardato come una mummia, Fini aveva difficoltà a muoversi,

anzi per la verità non poteva usare né mani né piedi. Così chiese all’amico

di srotolargli in fretta le bende perché era ormai vicino ad una crisi di

incontinenza: tra attesa della partenza, volo e soggiorno a Bagdad non

pisciava ormai da due giorni ed era ai limiti delle forze. Winni the Pooh

Confalonieri cercò di fare più in fretta possibile, ma nella concitazione dei

movimenti il vaso di miele si versò interamente sul bendaggio con un effetto

colla a presa rapida più veloce del Bostik. L’altro finì col pisciarsi addosso

e si rassegnò a portare quel costume per tutta la vita.

Sorte quasi simile toccò a Bush per gli stessi motivi, ma, più previdente,

prima di completare la vestizione da astronauta si era dotato di pannoloni

così aveva potuto liberarsi senza ulteriori complicazioni. Senonchè non

riusciva a spiegarsi come mai, piano piano, i suoi amici si erano allontanati

da lui di una mezza dozzina di metri e a nulla valevano i suoi reiterati inviti

a serrare le fila:”Come here boys” (Venite ragazzi) strillava a perdifiato per

coprire il rumore della musica, ma nessuno si azzardava a tornare sui suoi

passi.

Rintoccò la mezzanotte e nel frastuono generale,con i coriandoli sparati

da cannoni verso il centro della pista, in un’orgia di divertimento, si aprì

nuovamente la porta del “G Point” e si vide entrare uno spilungone vestito

da Ringo, l’eroe dei western all’italiana, con in mano un Kalashnikov, un

cappellaccio da cow boy calato sulla fronte, barba bianca e colorito scuro;

si avvicinò al bancone del bar, ordinò un bicchiere di latte di capra, bevve

guardandosi intorno con un’aria schifata, lasciò sul bancone la mancia e

una VHS e uscì senza dire una parola tirandosi dietro l’inseparabile kalashnikov.

George W. non fece neanche in tempo a mettere a fuoco dove avesse già

visto quel tipo che entrò un’altra figura, in costume da Babbo Natale, si

guardò intorno posando lo sguardo come trasognato prima sull’architettura,

poi sulla scala su su fino in cima, infine su quella moltitudine di gente vestita

nei modi più stravaganti scosse la testa con aria rassegnata e riguadagnò

l’uscita.  Anche in questo caso a Bush sembrò di cogliere in quello sguardo

qualcosa di vagamente noto, provò a focalizzare meglio i propri ricordi

ma i troppi bicchierini avevano formato una coltre ovattata tra i due

lobi del cervello; decise che non era importante e continuò accigliato  

e inconcludente a fissare il vuoto.